
La casa è poco sopra il paese, guarda la strada dall’alto, sta poggiata al monte e ci si arriva per una scalinata lunga di mattoni in pietra. Il legno che la ricopre da fuori è consumato dagli anni, una balaustra stretta le corre a fianco fino al terrazzo che affonda le zampe a palafitta nel pendio. Oltre la strada gli alberi diradano e l’altipiano diventa prato d’un verde che abbaglia. Si sporge il terrazzo sulla conca di Asiago che c’inonda di fresco anche nei giorni in cui l’afa della pianura colpisce ad altezza d’uomo.
Accendo un sigaro, in piedi, appoggiato coi gomiti sul parapetto e scruto il buio fitto che mi circonda. Le stalle hanno chiuso anzitempo stasera, le vacche sono rimaste al pascolo. Un odore intenso di sterco avvampa nei dintorni e dentro al mio naso. Fa niente, tiro forte una boccata dal sigaro. Chiodo scaccia chiodo, mi dico. Un buon detto è tale a patto che funzioni alla bisogna. La merda di vacca spande invece il suo feto in misura direttamente proporzionale al freddo che fa breccia dagli stessi pascoli. Neppure il sigaro può niente. Infilo la giacca e riprendo la lettura di pagine che ho trovato sullo scaffale a fianco del camino nel soggiorno della nostra casa. Sono una sorta di scrigno quei ripiani, zeppi di volumi che a leggerne i titoli sembrano parte di una storia compiuta. “Arboreto salvatico” si chiama il mio libro. Una rassegna botanica, arrocco per ragionar di sé e del proprio passato. Rigoni Stern ha vissuto qui, due case distanti dalla nostra. Non dovrebbe essere questione importante, lo so, eppure la cosa m’infonde uno stato d’inatteso benessere. Un’intima rassicurazione che fatico a reprimere.
Di notte il terrazzo è avamposto al silenzio che si leva dal bosco e dalle montagne chiuse a roccaforte.
Faccio un ultimo tiro, do una sbirciata al capitolo seguente, guardo l’ora e chiudo gli occhi. Sarà dura perfino indovinar la camera da letto.
Partiamo alla mattina seguente per Monte Zebio. Il primo tratto lo si percorre in auto inoltrandoci nello sterrato del bosco fino alla Croce di Sant’Antonio. Da qui proseguiamo a piedi sulla mulattiera. Il sentiero ripido e sconnesso è figlio della guerra, slabbra la foresta di abeti e diventa falsopiano più avanti. Una voragine si apre innaturale, come un ventre nascosto nel sottobosco alla nostra sinistra. Grande quasi come un campo da tennis fa credere ad un colpo di bombarda austriaca. Il versante che stiamo risalendo è la parte in cui stazionavano i reggimenti italiani a ridosso della linea del fronte tra il ‘16 e il ‘17. Il nostro esercito e quello austriaco combatterono sull’altipiano decimandosi senza risparmio di alcol e di vite, nel ripetersi folle di assalti suicidi sotto il tiro dell’artiglieria nemica. Seguiamo la direzione della cima verso i vecchi appostamenti e le trincee ancora percorribili. Il terreno si allarga all’altezza di una pozza d’alpeggio, uno scampanìo in lontananza aumenta in fretta di volume. Il bosco si prende una pausa e lascia spazio alla radura. La mandria di mucche al pascolo ci costringe ad abbandonare il sentiero e tagliare in alto riprendendo la via del bosco. Servono altri quaranta minuti di cammino per raggiungere Lunetta Zebio. Su questa altura nel giugno del ‘17 l’esplosione di una contromina austriaca falcidiò il presidio della Brigata Catania. Un solo colpo bastò a far saltare in aria 160 uomini e un pezzo di montagna. Il sole batte forte sulle pietraie di vetta, prende d’infilata le feritoie nascoste nel basso degli scavi e illumina i crateri che marcano la nostra salita. Nel punto in cui ci troviamo le trincee dei due eserciti erano distanti tra loro poche decine di metri. I soldati si sparavano contro per un riflesso incondizionato chiamandosi coi loro nomi all’allontanarsi dell’ufficiale di comando.
Emilio Lussu è stato tra i primi a raccontare storie della grande guerra di là da ogni stucchevole retorica trionfalistica. Le sue pagine ci rivelano il coraggio autentico che salva la vita di sé e degli altri e che nasce sempre da un istinto puro d’anarchia. Gli eroi veri, fuori e dentro la guerra, fanno fede alla loro pulsione ribelle. Disubbidire agli alti comandi è il solo modo di scampare al massacro senz’ombra di tradimento. Monte Zebio è la scena di un teatro dell’assurdo in cui migliaia di giovani disperati furono ammassati come bestie dinnanzi al macello. Ed io sono venuto quassù perché la parte di lettore appassionato non mi era più sufficiente. Ho covato a lungo il passaggio ad un altro modo di apprendere, una via d’immergermi fra i resti di un secolo che qui inaugurava il suo disfacimento. Scendiamo verso il cimitero della Brigata Sassari a cui appartenne il tenente Lussu. Il posto non è mappato su Google, ci aiuta una vecchia cartina scaricata dalla rete in un attimo improvviso che il telefono aggancia il segnale dati. Arriviamo in zona poco dopo. Non c’è nessuno in giro. Facciamo una visita soffermandoci nei dintorni del prato che accoglie duecento ragazzi spinti tutti quanti dall’isola dei quattro mori alla grande guerra, per morire innanzitutto. Ne leggo i nomi e le giovani età ed è ora di tornare. Lancio un ultimo sguardo alla stesa di croci. Sono venuto quassù e vorrei inventarmi una preghiera, pratica a cui non sono mai stato avvezzo per natura. Sono venuto ad ascoltare lo spessore del silenzio di questi monti. Io che ho una passione sincera alle svariate forme che il silenzio si sceglie quando permea l’aria fino ad annullare tutto il resto. L’assenza di suoni e rumori non basta a plasmarlo. È condizione necessaria ma non sufficiente. Il silenzio è creatura bicefala. Circonda e separa. Protegge. Incute timore. Annulla le distanze o le eleva a potenza. Inebria come fosse cordiale. Puoi andargli incontro o lasciare che ti sorprenda. Sovrasta e nasconde. Cala dall’alto alle volte, quest’oggi lo sento che sale dalle profondità terrestri. Il silenzio è tale quando fa presa dentro e rimescola il sangue. Non è mai sofferenza, semmai unico sfondo possibile al dolore. Il cielo si abbassa a dismisura oltre il crinale della foresta. Gli abeti attorno sono giganti immobili, silenti anch’essi dalla nascita, di guardia alla terra contro i vivi che ancora la popolano.








