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Monte Zebio

Il cimitero della Brigata Sassari a Monte Zebio

La casa è poco sopra il paese, guarda la strada dall’alto, sta poggiata al monte e ci si arriva per una scalinata lunga di mattoni in pietra. Il legno che la ricopre da fuori è consumato dagli anni, una balaustra stretta le corre a fianco fino al terrazzo che affonda le zampe a palafitta nel pendio. Oltre la strada gli alberi diradano e l’altipiano diventa prato d’un verde che abbaglia. Si sporge il terrazzo sulla conca di Asiago che c’inonda di fresco anche nei giorni in cui l’afa della pianura colpisce ad altezza d’uomo.
Accendo un sigaro, in piedi, appoggiato coi gomiti sul parapetto e scruto il buio fitto che mi circonda. Le stalle hanno chiuso anzitempo stasera, le vacche sono rimaste al pascolo. Un odore intenso di sterco avvampa nei dintorni e dentro al mio naso. Fa niente, tiro forte una boccata dal sigaro. Chiodo scaccia chiodo, mi dico. Un buon detto è tale a patto che funzioni alla bisogna. La merda di vacca spande invece il suo feto in misura direttamente proporzionale al freddo che fa breccia dagli stessi pascoli. Neppure il sigaro può niente. Infilo la giacca e riprendo la lettura di pagine che ho trovato sullo scaffale a fianco del camino nel soggiorno della nostra casa. Sono una sorta di scrigno quei ripiani, zeppi di volumi che a leggerne i titoli sembrano parte di una storia compiuta. “Arboreto salvatico” si chiama il mio libro. Una rassegna botanica, arrocco per ragionar di sé e del proprio passato. Rigoni Stern ha vissuto qui, due case distanti dalla nostra. Non dovrebbe essere questione importante, lo so, eppure la cosa m’infonde uno stato d’inatteso benessere. Un’intima rassicurazione che fatico a reprimere.
Di notte il terrazzo è avamposto al silenzio che si leva dal bosco e dalle montagne chiuse a roccaforte.
Faccio un ultimo tiro, do una sbirciata al capitolo seguente, guardo l’ora e chiudo gli occhi. Sarà dura perfino indovinar la camera da letto.
Partiamo alla mattina seguente per Monte Zebio. Il primo tratto lo si percorre in auto inoltrandoci nello sterrato del bosco fino alla Croce di Sant’Antonio. Da qui proseguiamo a piedi sulla mulattiera. Il sentiero ripido e sconnesso è figlio della guerra, slabbra la foresta di abeti e diventa falsopiano più avanti. Una voragine si apre innaturale, come un ventre nascosto nel sottobosco alla nostra sinistra. Grande quasi come un campo da tennis fa credere ad un colpo di bombarda austriaca. Il versante che stiamo risalendo è la parte in cui stazionavano i reggimenti italiani a ridosso della linea del fronte tra il ‘16 e il ‘17. Il nostro esercito e quello austriaco combatterono sull’altipiano decimandosi senza risparmio di alcol e di vite, nel ripetersi folle di assalti suicidi sotto il tiro dell’artiglieria nemica. Seguiamo la direzione della cima verso i vecchi appostamenti e le trincee ancora percorribili. Il terreno si allarga all’altezza di una pozza d’alpeggio, uno scampanìo in lontananza aumenta in fretta di volume. Il bosco si prende una pausa e lascia spazio alla radura. La mandria di mucche al pascolo ci costringe ad abbandonare il sentiero e tagliare in alto riprendendo la via del bosco. Servono altri quaranta minuti di cammino per raggiungere Lunetta Zebio. Su questa altura nel giugno del ‘17 l’esplosione di una contromina austriaca falcidiò il presidio della Brigata Catania. Un solo colpo bastò a far saltare in aria 160 uomini e un pezzo di montagna. Il sole batte forte sulle pietraie di vetta, prende d’infilata le feritoie nascoste nel basso degli scavi e illumina i crateri che marcano la nostra salita. Nel punto in cui ci troviamo le trincee dei due eserciti erano distanti tra loro poche decine di metri. I soldati si sparavano contro per un riflesso incondizionato chiamandosi coi loro nomi all’allontanarsi dell’ufficiale di comando.
Emilio Lussu è stato tra i primi a raccontare storie della grande guerra di là da ogni stucchevole retorica trionfalistica. Le sue pagine ci rivelano il coraggio autentico che salva la vita di sé e degli altri e che nasce sempre da un istinto puro d’anarchia. Gli eroi veri, fuori e dentro la guerra, fanno fede alla loro pulsione ribelle. Disubbidire agli alti comandi è il solo modo di scampare al massacro senz’ombra di tradimento. Monte Zebio è la scena di un teatro dell’assurdo in cui migliaia di giovani disperati furono ammassati come bestie dinnanzi al macello. Ed io sono venuto quassù perché la parte di lettore appassionato non mi era più sufficiente. Ho covato a lungo il passaggio ad un altro modo di apprendere, una via d’immergermi fra i resti di un secolo che qui inaugurava il suo disfacimento. Scendiamo verso il cimitero della Brigata Sassari a cui appartenne il tenente Lussu. Il posto non è mappato su Google, ci aiuta una vecchia cartina scaricata dalla rete in un attimo improvviso che il telefono aggancia il segnale dati. Arriviamo in zona poco dopo. Non c’è nessuno in giro. Facciamo una visita soffermandoci nei dintorni del prato che accoglie duecento ragazzi spinti tutti quanti dall’isola dei quattro mori alla grande guerra, per morire innanzitutto. Ne leggo i nomi e le giovani età ed è ora di tornare. Lancio un ultimo sguardo alla stesa di croci. Sono venuto quassù e vorrei inventarmi una preghiera, pratica a cui non sono mai stato avvezzo per natura. Sono venuto ad ascoltare lo spessore del silenzio di questi monti. Io che ho una passione sincera alle svariate forme che il silenzio si sceglie quando permea l’aria fino ad annullare tutto il resto. L’assenza di suoni e rumori non basta a plasmarlo. È condizione necessaria ma non sufficiente. Il silenzio è creatura bicefala. Circonda e separa. Protegge. Incute timore. Annulla le distanze o le eleva a potenza. Inebria come fosse cordiale. Puoi andargli incontro o lasciare che ti sorprenda. Sovrasta e nasconde. Cala dall’alto alle volte, quest’oggi lo sento che sale dalle profondità terrestri. Il silenzio è tale quando fa presa dentro e rimescola il sangue. Non è mai sofferenza, semmai unico sfondo possibile al dolore. Il cielo si abbassa a dismisura oltre il crinale della foresta. Gli abeti attorno sono giganti immobili, silenti anch’essi dalla nascita, di guardia alla terra contro i vivi che ancora la popolano.

Tre vite

Scrissi le righe che seguono in un giorno d’entusiasmo allo scrivere.

Chi siamo noi davvero? O se preferite, qual è la vita che abbiamo vissuto in concreto? Esiste una verità nascosta in qualche piega del tempo che alla fine si svela e ci racconta della nostra essenza reale e profonda? Quante persone portiamo dentro? Chi redige il giudizio, per noi comuni e anonimi mortali che non lasceremo traccia, non dico nella Storia, ma neppure nella cronaca di quartiere o negli archivi di parrocchia? Chi avrà l’ultima parola? Se credessi in un Dio sapiente e giusto non dovrei dannarmi troppo nel cercare risposte a domande difficili che vengono a tormentarmi, come fanno i succhi gastrici, ad ogni cambio di stagione. Se credessi in un Dio onnisciente e misericordioso chiederei a lui. Dio è risposta per pochi però, ed io non sono fra gli eletti. Non riesco neanche a immaginare se sarei capace di sopportare la certezza della sua presenza. Io che di certezze faccio a meno ogni volta che posso. Io che mi deprimo e divento triste davanti alla più sciocca e insignificante delle verità rivelate. Dovrei prendere altre pillole forse. Non basterebbero più le mie confezioni di Moment Act e Tachipirina 1000. Mi chiedo poi se un Dio sovrano assoluto ma anche illuminato, a capo della magistratura celeste, non imporrebbe ai suoi interpreti una revisione completa del corpo normativo penale, datato oramai più del codice Rocco. La condanna alle fiamme perenni dell’inferno, piuttosto che la sala d’attesa del purgatorio, o l’accesso alla felicità infinita nelle volte del paradiso mi paiono idee che oggigiorno fanno presa giusto fra le frange dei cristiani più accaniti. Inferno e paradiso hanno smesso di essere i destini ultimi delle nostre anime in bilico e (im)mortali; esistono semmai in quanto luoghi misteriosi e difficili da esplorare, tutti interni però alle umane vicende. Dante per primo ce lo ha raccontato nel poema più famoso, affascinante resoconto di viaggio del suo spirito inquieto, prima ancora che commedia divina. Dio, insomma, è un personaggio che in letteratura ha sempre mantenuto un certo appeal, anche solo comparendo a margine delle storie. Ma non puoi rifilargli ad ogni costo l’onere del giudizio ultimo (Universale, dicono addirittura le Scritture). Credo che, dall’alto della sua autorevolezza, sentendosi tirato per la giacca ad ogni occasione minima, si sfogherebbe più o meno così: «io devo giudicarvi, decidere sul destino di tutti voi? Ma per chi mi avete preso? Io che non riesco a tener dietro a un sacco di faccende molto più serie e gravi al confronto della vostra sciocca vita di uomini. Rivolgetevi, che ne so, all’Uomo Ragno oppure a Fonzie di Happy Days. Meglio, portatevi avanti da soli.»
Dunque scartata l’ipotesi del divino che stabilisce una verità finale sopra la bontà del nostro vivere e delle nostre scelte, a chi possiamo appellarci? Se, nel dubbio che intanto non mi abbandona, dessi retta a Dio (anche solo poco così), allora proverei sul serio a mettere sotto torchio la mia coscienza. Questo significa – per tornare alla domanda d’inizio – che la vita numero uno è la vita che crediamo di aver vissuto. E qui entra in gioco la nostra tempra. Supponenza, umiltà, presunzione, autostima, arroganza diventano elementi che spostano la barra. Il giudizio su noi stessi occorre, ma è un tratto debole di matita che marca le ombre. Le ombre che danno profondità al disegno ma non ne tratteggiano il corpo.
Il ricordo delle persone che ci hanno conosciuto da vicino; coloro che ci hanno voluto bene e quelli che non ce ne hanno voluto: ecco che comincia a definirsi una nuova vita per noi. Differente da quella che ci siamo raffigurati. La memoria degli eventi e dei personaggi che vi hanno preso parte. Sta qui la vita numero due. La vita che abbiamo trascorso senza che siamo riusciti a rendercene troppo conto. Potremmo stupirci a questo punto e non riconoscere più il disegno, che però assume tratti più nitidi oltre le ombre di partenza e certe linee confuse che ancora non trovano una ragione d’essere all’interno del quadro. E arriviamo alla vita numero tre. La vita che rimane di qua e non è dato vedere a chicchessia. La vita non passibile di giudizi perché nessuno può accedervi. La vita che non sfuoca in immagine, che non trasfigura, come la scena che sfugge all’obiettivo della macchina da presa; la vita racchiusa in una zona buia al punto che anche Dio rinuncia a coglierne i contenuti. Quella che non hai vissuto ancora e chissà se sarai buono a prendertela, fossi anche all’ultimo metro della tua corsa.
La pagina è di nuovo bianca ed io chiudo gli occhi mentre disegno strisce che tagliano di sbieco le mie ombre.

Because

Che è successo? Cosa vi porta qui? Da dove arrivate e perché dovrei accogliervi? Il carabiniere che ci starà davanti scatterà una, due, tre foto e reciterà il suo questionario. Non risponderemo perché rispondere sarebbe come riferire un trattato sull’uomo che da nomade si fa stanziale. E poi torna ancora nomade spostandosi su un’altra faccia di terra lontano dal torrido che sa di pestilenza e carestia. In una vita che abbiamo vissuto altrove siamo stati tutti quanti, uno ad uno, profughi e disperati. Ed a fatica abbiamo trovato una mano ad accoglierci su una riva qualunque da questa parte di mare. Abbiamo tutti attraversato acque profonde, stipati su un imbarcadero tenuto assieme da migliaia di bullette mangiate dal sale per via delle andate e dei ritorni su quello stesso mare. Abbiamo anche chinato la testa fingendo uno sguardo opaco dinnanzi ad una serpe di traghettatore che si chiamava Caronte, solo per tenere a vista i nostri figli e strapparli a un giuramento di fame. Siamo tutti rinati nel mezzo di una distesa d’acqua che promette ogni volta sereno e dispensa tempesta. Chi non ho visto più è affondato nel viaggio. Chi tra noi è morto è perché qualcuno ha giocato a dadi sulle nostre vite e come nell’Oca ha allontanato beffardo la riva. Quando i maledetti di oggi avranno terminato la loro invasione toccherà di nuovo a noi. Perché di certo saremo i maledetti di domani. Chiamati ad una nuova conta. Ad un nuovo appello. Convocati uno ad uno all’attraversamento degli oceani ed al recinto che di là ci attende. Ci terremo per mano senza ingozzarci d’illusioni. Staremo accorti. E ci faremo di nuovo i muscoli. Toccherà pure remare su di un patino che verrà a prenderci perché incagliati in rada. E si tingerà di rosso quel patino. Ci sembrerà lo stesso che sul bagnasciuga sorvegliava il culo grasso ai bagnanti degli stabilimenti Nettuno. Con fatica ci porterà al lager, via dalla risacca. Indosseremo, che so, un cappello o una maglietta che ci sia di riconoscimento e magari servirà (con le scarpe, beninteso, perché le scarpe sono e saranno d’obbligo) a pagarci l’acconto sul riscatto che dovremo all’infamia del nostro carceriere. Toccheremo riva poi. E sabbia sudicia dei resti di altri prima di noi. Il carabiniere vestito del solito nero punterà il dito alla rete che dovrà contenerci. Pescheremo in fondo a una busta uno o due biscotti del mulino a ricordarci la famiglia che eravamo, a toglierci fame quel tanto che basta a smorzare la smania di fuga per le campagne, lungo strade che attraversano oblique i continenti e scompaginano inseguitori e fuggiaschi. Saremo di nuovo fuggiaschi di professione. E c’inventeremo una vita nuova. A nord. Dov’è il freddo, e il sole sta in bilico sulla cresta delle montagne e concede un uso gratuito di luce alle savane di neve e ghiaccio. Nient’altro che luce. Dove l’orso è amico e la poca gente sta a distanza senza sacrificio di bene e bontà. Mentre il fiume passerà a bagnarci d’estate. Una voce a chiamarci da vecchi. Perché intanto invecchieremo e rammenteremo la fame. Gli stessi di una vita fa. Ci allieterà un giro a scopone e nessuno di noi che saprà più sparigliare solo per il gusto di costringerci a un’ultima mano senza uno straccio di carta buona a vincere. Avremo tutti il nostro regio bello e un modo dolce di avvicinare la morte. Sempre più vecchi punteremo ancora a nord fino a scavallare la circonferenza terrestre e ricominciare la discesa del pianeta e del tempo vissuto. Ci porteremo appresso un libro di Mark Twain e il nostro abbecedario semmai riconquistassimo con gagliardia e dolore il tempo della libertà. Suonerà Because intanto, è certo, arrivati che saremo al lato B di Abbey Road.

L’avvocatu

Freno lungo in derapata di fronte ai gazebo di là dagli stabilimenti Florio che consegnarono al mondo il tonno sottolio almeno un paio di secoli fa. Io devo soltanto riconsegnare il mio 125 scarburato al moto noleggio. Mi sono fatto in solitaria e a manetta la strada che da Cala Stornello arriva al paese. Tunnel e chicane neanche fossi a Montecarlo. Ho toccato i 60 orari, il mio Ciao rosso con sotto la proma, al confronto, era roba da MotoGp. Lei è partita su un taxi coi bagagli per il porto. Alzo gli occhi al cielo, sento lontano il fischio di un aereo che fa zigozago tra le nuvole. Penso a Celentano e alla sua canzone più bella. Le coincidenze a volte fanno tremare i polsi. Vedo un prete sul lungomare opposto e l’incantesimo si spezza. Mi fermo davanti al tendone, scendo dallo scooter e saluto un settantino stravaccato su un sedile di paglia, espradillas color della polvere, camicia aperta all’ombelico, Rayban appesi su un naso dantesco.
Mi guarda storto dal basso della sua seduta: “Da quali parti ri Toscana vèni?”
Se non avesse aperto bocca, lo avrei detto in fuga da Stagno od Ovosodo. Non ho voglia di troppe parole: “Pisa”, rispondo, e vorrei chiuderla lì.
“Chidda nun jè Toscana!”
Gli chiedo se ha parenti a Livorno.
“Ma quali Livorno e Livorno, Firenze a Toscana jè. Tuttu u restu, trazzera!”
Sono stanco. Troppo sole. E la vacanza è finita: “Vabbè, le credo sulla parola…”
Come se avesse staccato una spina da qualche presa nascosta comincia a parlare un italiano senza più ombra di accenti, un Mike Bongiorno al Rischiatutto: “Devi scusarmi, ho studiato a Firenze ed ho lavorato là molti anni, per questo sono un poco partigiano.”
“Posso chiederle che studi ha fatto?”
“Sono avvocato di lunga data. Vengo da Erice.”
Si posa una nuvola sopra le nostre teste a coprire e darci tregua. L’avvocato insiste: “La vostra università è la migliore di tutte comunque…”
“Dice?”
“Certamente, tu hai studiato?”
“Avrei potuto farlo meglio.”
“Studi scientifici o umanistici?”
“Scienze politiche, veda un po’ lei…”
Eccolo che attacca di nuovo la spina: “Minchiaaaa, scienze politiche, chidda jè ‘na facoltà da paraculi, pi cu nun avi vùogghia ri sturiari!”
Sorrido all’avvocato che abbassa gli occhiali per mettermi a fuoco. Il sole strappa le nuvole e torna a battere forte sullo spiazzo sterrato. Preparo l’artiglieria pesante. Tiro fuori dallo zaino la coppola che ho comprato dal cingalese ad un angolo della Piazza del Municipio e me la sistemo bene in testa.
“Levici manu, mancu cu u berretto pari ‘n sicilianu.”
Quest’uomo è il settimo, penso. Il personaggio che per una irrisolta, misteriosa ripicca del maestro non è uscito dalla penna in quel suo capolavoro di lettere e teatro. E allora si vendica l’avvocato, rompendo i coglioni a me e a tutti quelli che transitano da queste parti costretti a improvvisare una commedia nel mezzo di un palcoscenico che si stende a perdita d’occhio, fatto di vento e mulinelli di terra a togliere il respiro.
Spingo sul naso le lenti per vederlo anch’io bene in faccia: “Avvocatu…”
“Parla.”
Idda nun jè strunzu tuttu. Sulu na pocu. E a currìenti alternata. Comu chidda rintra a presa, comu chistu suli fetuso.
Il maestro non avrebbe mai potuto lasciarmi nella sua penna. Né per sbaglio tantomeno per ripicca. Non sono personaggio da lettere o teatro io. Il pensiero di una risposta gravida di fetenzia, vastasa, mi ha preso solo di striscio.
“Avvocatu…”
“Sé…”
“Sabbinirìca…”
“A vossìa dutturi, ‘n saluto a Pisa e un bacione a Firenze…”
“Vattinni va…”
Gli rinnovo un sorriso, pigro però, guardo l’ora e fuggo sperando che il nostro aliscafo non sia ancora in porto. La vedo intanto che mi chiama sbracciandosi dalla banchina più lontana.

Porto di Favignana
Luglio ’23

O mari

Ho imparato in fretta. E non sempre è stato così. Al contrario. Mi è toccato in sorte un comprendonio che è bigiotteria. La vita mi ha ricompensato offrendomi compagnia scelta, a scuotermi e ripararmi. Lei è un dono per tutte le stagioni. Di tanto in tanto aggiungo qualche lettura che serve a rinnovare il dubbio e cacciare indietro l’ossido che mi scorre dentro per via di qualunque verità di lungo corso che vorrebbe darsi per rivelata. In questa costola staccata di Sicilia, certi anziani, molti a dire il vero, salutano prima che lo faccia tu. La signora, curva sul trasportino come una variante Ascari in verticale, si è tirata su raschiando forza dentro un barile secco, mi ha guardato dai suoi occhi verdi come il mare di fronte e la faccia increspata di cicatrici di quello stesso mare, poi un sorriso s’è fatto largo intorno alle sue labbra ridotte a due strisce sottilissime e mi ha scagliato contro un buongiorno inatteso e sincero. Ho risposto un po’ invasato al saluto della signora, improvvisando anch’io un sorriso vero ed ho provato vergogna. Per non aver colto in tempo utile la sua urgenza. Non esser riuscito ad anticiparne nobilmente la mossa. E non aver offerto a lei l’occasione prelibata di godersi il suo istante prezioso di lusinga. Ecco che ho imparato allora: ad ogni vecchio, masculu o fimmina, che incontro su questa macchia di terra che naviga a vista nel Mar Interno, forse in direzione d’Ercole e delle sue Colonne, sono io che saluto per primo a costo del più fragoroso insuccesso. Me ne vado in giro con lei su questo scooter scassato, saltando in un pomeriggio da Bue Marino a Cala Rotonda. E poi Lido Burrone e i Faraglioni. Alla rincorsa di un mare fresco e limpido ed in fuga da eserciti di meduse che paiono la Wagner nei giorni della marcia su Mosca. Blocchiamo le ruote sul ciglio di una sentiero sterrato che finisce in un campo. Ci viene incontro un vecchio con una zappa in mano urlando qualcosa nella sua lingua che è una musica dolce e complicata. Forse abbiamo invaso la sua proprietà. Oppure ci sta avvisando di un pericolo.
“Sabbinirìca cumpà” gli dico.
“Santu e riccu, ti devi turnari!”
“Unni avemu da annari cumpà?”
“O mari! Ti pari lu mari chistu?”

Buone vacanze a tutti.
Favignana, giugno ’23

Il passeggero di Cormac McCarthy

Western è il ritorno alla frontiera. Il non luogo da cui ha preso corpo l’America. McCarthy ne ha fatto schizzi insuperati. Western ha un nome che è un marchio a fuoco. Lui stesso è frontiera. Un uomo che affronta la vita di scarto e tiene dietro a un’idea improbabile d’amore che quella vita gli ha tolto solo perché improbabile. Per questo non è peggiore di noi. Certo non peggiore di me. McCarthy non intende ingannare nessuno e lo fa rivelandoci una verità religiosa. Non esistono uomini peggiori, semmai uomini che rimangono abbarbicati alla coda di un sentimento folle, malato forse, e che trovano a notte fonda una spiaggia perduta dove addormentarsi. Uomini pagani sfiorati dalla grazia di Dio senza che neppure Dio abbia avuto modo di accorgersi di loro. Western sogna un’ultima volta Sheddan, l’amico morto qualche tempo prima, seduto su una poltrona di un teatro vuoto. I loro sono da sempre incontri all’arma bianca. Uno sfodero di lame a tagliare pensieri obliqui che non ce la fanno mai a ricomporsi. Sheddan nel sogno ci svela da ultimo la linea d’orizzonte dove va a posarsi l’animo umano: “È sicuramente vero che non esiste un terreno comune della gioia come esiste del dolore. Niente ti assicura che la felicità di un altro somigli alla tua. Ma sulla natura collettiva della sofferenza non possono esserci dubbi. Se non siamo alla ricerca dell’essenza, ‘sere, allora cosa cerchiamo? E ti do atto che non possiamo scoprire una cosa simile senza apporvi il nostro sigillo. Ti concedo perfino di aver pescato le carte peggiori. Però ascoltami, messere. Se la cosa di una sostanza resta da dimostrare, difficilmente la forma ha più autorevolezza. Ogni realtà è perdita e ogni perdita è definitiva. Altre non ce n’è. E la realtà che indaghiamo deve prima di tutto contenerci. E cosa siamo noi? Dieci percento biologia e novanta percento mormorio notturno.”

È una scrittura, quella di McCarthy, fatta di vuoti e risposte appena accennate che rivelano tutto, e di respiri portati all’estremo. Luoghi chiusi e marcescenti che si affacciano su mari battuti da lampi che annunciano tempesta e un ritorno al deserto. Non c’è mistero e neppure attesa nella vicenda di Western, solo un velato dispiegamento del tempo presente come un vano e ripetuto tentativo di emergere dall’oscurità liberandosi del tempo trascorso. Con la sola identica ossessione di una vita: tornare da lei e alla sua bellezza una volta chiusi gli occhi, ed invadere le tenebre in un accenno di gioco senza fine.

Qualcuno lo annovera tra i più grandi degli ultimi due secoli. Non sono all’altezza di giudizi simili. Forse non sono all’altezza di prendermi tutto ciò che Cormac McCarthy ci racconta. Altro non so dire.

Il limite

C’è un limite.
Un limite alla libertà di diffondere parole dannate.
C’è un limite alla bestemmia.
Un limite alla provocazione.
C’è un limite allo sgomento.
Un limite all’inettitudine di chi ha consentito, consente e consentirà ancora.
C’è un limite a qualunque libertà.
Un limite alla “libertà alla portata di tutti”.
Un limite alla libertà di soffocamento della libertà altrui.
Un limite a questo confuso e diffuso senso di libertà.
Un limite a questo diffuso e confuso feticcio di cultura.
Un limite allo sberleffo della storia.
Un limite al diritto di portare con sorriso una faccia che più di merda non si può.
Un limite al silenzio complice dinnanzi allo scempio.
Un limite all’abitudine.
Un limite alla libertà del mercato.
Un limite al pane fresco di domenica.
Un limite al caporalato sancito per legge dentro ai centri commerciali.
C’è un limite da rimuovere per una retribuzione cospicua nel giorno di festa a chi è costretto a lavorare nel giorno della festa.
Un limite al limite di maledire e mandare affanculo l’intera filiera.
Un limite…
Ché io non posso far irruzione in chiesa alla messa di Natale e urlare in faccia ai fedeli: “Oggi è nato l’impostore!”
Pena il sovvertimento della preghiera in malabolgia.
Insomma, l’ho detto, la bestemmia offende e va punita.
Un limite alla scelta di lasciare la nave a chi la guida dritta alla scogliera.
C’è un GRANDE limite che si chiama Sfacelo a cui ci stiamo inesorabilmente approssimando con poderosa noncuranza. Di là da quel limite, le regole ancora nessuno le conosce.
Nei giorni che ci avvicinano a quest’anniversario che dovremmo festeggiare come si fa con certe sacre ricorrenze, leggo la mia playlist n. 4 che inizia a suonare in un’altalena di canzoni diverse, di tormento e speranze. Il tutto pare avere un senso compiuto.

Povera patria (Battiato)
Io se fossi Dio (Gaber)
Venderò (Bennato)
Ottocento (De Andrè)
Hey you (Waters)
Segnali di vita (Battiato)
Waiting for the sun (The Doors)
Bella ciao (vers. MCR)
L’impero (Mannarino)
Addio Lugano bella (Gori)
A dumènega (De Andrè)

Sfuma un testo in Maggiore di Gianmaria Testa che fa così:
“Lascia che torni il vento
E con il vento la tempesta
E fa’ che non sia per sempre
Il poco tempo che ci resta.
Lascia che torni il vento
E con il vento la stagione
Ché tutto appassirà
Per chi bestemmia le parole.”

Ecco che si chiude il (mio) cerchio dinnanzi a un cartello da bandire e strappare sul volto del bandito che l’ha scritto e appeso da qualche parte, in questa disperata tornata di tempo. In questa parte scellerata di mondo.

Scusate l’anticipo.
Buon 25 aprile a tutti voi.

P.V. Tondelli si è fermato a Cutro

Quando resti ammutolito e non trovi un impeto di risposta a certe parole riferite dalla bocca di un Ministro della Repubblica, transitate in anticipo chissà per quali impervie e segrete grinze di quella parte d’animo che ci vorrebbe ancora umani; quando le parole di un ministro sovrastano il senso della comune spietatezza, e la capacità di analisi critica contenuta in quelle parole ti ricorda quante volte hai provato ad argomentare senza uno straccio di pensiero compiuto, e senza dover aspettare di essere a capo di un dicastero importante; quando alla fine, disarmato e impotente, ti coglie una riflessione a sorpresa che subito si trasforma in sospetto; e allora cerchi un telegiornale qualunque che ti spieghi qualcosa in più su quei trenta morti che nel frattempo sono saliti a quaranta, e poi cinquanta (fino a quando cresceranno?) e ti ripete il telegiornale che non sono affondati in mezzo a un mare largo e profondo, ma proprio lì, davanti al tuo ombrellone dove galleggia d’estate la boa arancione che ti serve a legarci il pedalò e fare i tuffi o lo scivolo in acqua; quando allora il primo destinatario dei tuoi sospetti sei tu stesso e ti dici che il ministro è il mostro che porti in grembo, niente più; e quindi l’imperativo per noi tutti è mantenere ad ogni costo le posizioni; e non ci resta che chiudere, respingere, abbandonare e uccidere a mare; quando il ministro e la sua bocca di ministro si lasciano andare ad un’idea per cui “io non partirei se fossi disperato perché sono stato educato alla responsabilità”, ecco, io credo che il punto di non ritorno sia distante da noi quanto il barcone di Cutro dalla riva negli attimi del ribaltamento. La responsabilità a cui davvero dovremo riconvertirci sarà quella di non lasciare tracce di noi nella storia. Qualcuno lo dica anche a Piantedosi. Nel frattempo alleniamo il nostro spirito ai tempi che saranno. P.V. Tondelli pubblicò queste righe nella luce abbagliante che d’un tratto inondò il mondo accelerando così il suo tracollo. Era il 1989.
“Che cosa sta facendo questo decrepito continente al Terzo Mondo? Questo popolo di pirati e di beoni rissosi alle sue ex colonie, ai suoi ex sudditi, a chi ha piegato con la forza e la violenza dopo averlo depredato e sfruttato? […] E lui può già vedere la vecchia e malata Europa, con tutta la sua grandeur e la sua cultura e la sua boria, il suo tè delle cinque e le sue cerimonie accademiche, abolita, occupata, conquistata dalle masse dei più miseri, dei più affamati, dei più sfruttati. Sarà la loro guerra. I poveri si vendicheranno seminando figli ovunque, riproducendosi a raffica come il crepitio delle mitragliatrici, occupando ogni postazione con i propri cadaveri, usando se stessi come forza di sfondamento. Vinceranno, e di loro, evangelicamente, sarà la terra.”

Il lago Baccio

Sale il sentiero nel bosco spesso di faggi. C’inerpichiamo fra ciottoli e pietre che si lasciano scansare a volte, oppure no. Oppure sono lì che attendono il nostro piede incerto per dargli uno slancio nuovo. Sale il sentiero, sempre più duro e vivo. Si prende il nostro respiro in cambio d’ossigeno. Il cielo di montagna, quando c’è, diventa limpido all’inverosimile. In mezzo al fitto degli alberi non lo sai più. Il sentiero è una ferita slabbrata che taglia la faccia al bosco e si arrampica a quel cielo. Ne seguiamo la traccia e il sangue. L’odore che sento è di animale che non si fa vedere. E d’acqua gelata che scroscia e vorrebbe bagnarti dal costone più alto. Scattiamo una foto che è come profanare un luogo sacro. Il bosco a un certo punto si prende tutto. Fatica pensieri luce. Saliamo ancora, insieme alla montagna. Puntiamo i bastoni a terra a darci un’altra spinta. Le ginocchia piegano senza arrendersi. Un cane ci abbaia di spalle fino a superarci e scomparire nella macchia. “Ottooo”, gli urla inutile la ragazza. Fa una curva secca il sentiero oltre una pianta slanciata in aria maestosa che svela il pieno delle sue radici come fosse una grandissima gnocca che si mostra senza l’intenzione di darsi a chicchessia. Tiriamo il fiato e proseguiamo. Siamo cacciatori disarmati e affamati. Fa freddo nel bosco quando il resto del mondo muore di calura e siccità. Pare un tempo che corre al contrario il nostro, di chi è in cerca di cose che non ha voluto scoprire da bambino. Spiana il sentiero e diradano gli alberi alla fine, e si stende il lago davanti a noi. Beviamo le ultime gocce dalla bottiglia e ci scambiamo saliva in un cenno di bacio che non serve a dissetarci, basta solo a sentire quel che resta dei nostri profumi. Il cielo torna a sommergerci con uno strato rinnovato di bianco. Lo specchio d’acqua immobile riflette il verde del pendio. Otto riappare dal sentiero, salta agilissimo sopra i rami e i sassi verso la sponda. Si tuffa e nuota come neanche Michael Phelps nei giorni migliori. Avanti e indietro senza tregua. Il lago lo sa e prende a cullarsi intorno al suo danzare.

Dieci piccoli indiani

Dieci piccoli indiani. E non rimase nessuno.
Agatha Christie, 1939

Poteva fermarsi al primo finale Agatha Christie, la storia sarebbe stata buona comunque. Non le è bastato però, ha inteso aggiungere il capitolo degli indagatori che brancolano nel buio con il sol merito di sbattere al buio anche noi lettori oramai a un passo dall’appagamento. La sedia di Vera non è più là dove l’avevamo lasciata qualche pagina addietro e sorprendiamo noi stessi costretti di nuovo ad avanzare a tentoni. Non consuma la Christie però tutto il suo talento in un colpo solo: ha scritto da capo la vicenda in quell’ultimo finale, addossando il piano alla figura la cui morale nobile ed incorrotta sa mantenersi intatta fino alla fine. La figura che avremmo pensato colpevole da subito senza crederci neanche un po’. Che non vorremmo incrociare neanche per errore in nessun angolo di stanza o corridoio. La figura ultima che alla fine è colpevole sempre, in capo a tutti gli altri. Anche se tutti gli altri, che in buona parte governa, lo ignorano. La Christie no! È abile e furba. Tira i fili della storia e gioca a scartino. Strappa la maschera dal volto dell’omicida appena in tempo e ci regala la sua confessione postuma. Che non è ammissione di colpevolezza. Al contrario. Non sazio del destino che si è scelto in vita il carnefice vuole per sé anche la parte del boia, aggiudicandosi con sincera sfacciataggine il suo modo sublime di “genuflettersi nell’ora dell’addio.” C’è un abisso nell’animo umano da cui non si risale. Agatha Christie lo riconosce e ne svela un tratto senza che quasi ce ne accorgiamo, nella finta levità del suo capolavoro giallo.