
Posso interrogarmi, e non dico trovar risposte che acquietino il mio senso di estraneazione nel mondo; una via di fuga vaneggio, solo questo, dalla rassegnazione e da un sentimento di perenne sconfitta davanti al nulla che mi trascina come fa la grossa di un fiume con rami e tronchi di alberi morti che cadono a valle nei giorni delle piogge; senza una foce che da qualche parte o in un dato tempo mi accolga per scaraventarmi verso un mare qualunque, aperto al punto da mettere di nuovo in discussione la mia discesa. Posso tollerarmi un giorno di più, accettando che sia davvero il vuoto spinto di gesta e parole inutili, osservate o compiute, ascoltate o pronunciate, ad avere la meglio, separando tutta questa miseria dall’attimo in cui la clessidra avrà lasciato andare anche l’ultimo grano di sabbia? O il senso del tutto sta lì, nel suo non senso? E non mi sarà mai concesso sapere qualcosa di me, di giorni futuri che si compiranno dietro una nuova spinta liberatrice buona ad affrancarmi da tutte le schiavitù che mi costringono al mondo degli uomini mimetizzandosi sotto vecchie e nuove forme di relazione, convenzione, linguaggio? E la forma-potere, nelle sue svariate manifestazioni esteriori (politica, finanza, lavoro, società ecc.) non è forse il surrogato di una teleologia scaduta e ridotta a materia in avanzato stato di decomposizione? Me ne sto chiuso in una prigione angusta, e non mi vengono idee per prepararmi a una fuga. Eppure devo cercare qualcosa. Scandagliare i fondali. O rimanere in superficie con una pistola in pugno. Non so quanti giorni sarà possibile lasciare correre ancora, così, alla chetichella, e fare finta che vivere, a ottantasette anni (o sono novantadue piuttosto?), significhi aspettare che tua moglie torni a casa, di sera, da te. Solo per la fortuna sfacciata che ti si è avventata addosso, la fortuna di vivere al fianco di una donna che il tempo ti ha insegnato ad amare molto più di quanto non facessi da ragazzo imberbe. Si corre verso la morte, da soli, per forza di inerzia, a pensare semplice. E non dovrebbe esserci molto altro da aggiungere. Ognuno vive cercando nottetempo una via decorosa alla sua fine. È qui il mistero, che è tutto fuorché mistero. Si può addirittura credere al modo di certi antichi, racchiuso in un divertente aforisma di quel grande cazzone (pieno di talento, non ho dubbi) che era Mark Twain. Non aveva paura di morire, lui, perché lo era stato (morto appunto) per svariati miliardi di anni prima della nascita. E la cosa non lo aveva infastidito affatto. La questione pare così ridotta ai minimi termini. Mi verrebbe da chiosare: “Vivi e fai un po’ quello che ti pare.” Ma non è una frase mia. L’uomo e la morte alla stregua di due numeri naturali. Primi fra loro. Fregandosene della filosofia moderna, Cioran rispose in punta di penna alla boutade (provocante più che provocatoria) dell’americano illustre. E rispondendo s’inghiottì un pezzo di Nietzsche e Schopenhauer, come Arnold Schwarzenegger fece coi berretti verdi in quel film dove gli avevano rapito sua figlia e lui si lanciava dagli aerei in volo (senza paracadute, ovvio) per andare a salvarla. Dunque Cioran, che non era Schwarzenegger perché doveva innanzitutto salvare se stesso, mettendo mostarda e cianuro nel suo ragionare sulla morte dopo la vita (sì, hai capito bene, la morte dopo la vita e non il contrario che è una questione inconsistente fino alla noia), disse: “Perché temere il nulla che ci aspetta quando non differisce da quello che ci precede: questa argomentazione degli antichi contro la paura della morte è inaccettabile in quanto consolazione. Prima si aveva la fortuna di non esistere; ora esistiamo, e proprio questa particella di esistenza, quindi di sventura, teme di scomparire. Particella non è la parola esatta, giacché ognuno si ritiene superiore o, almeno, uguale all’universo.” Qui, la frazione uomo/morte, temo, non sia più questione riducibile ai minimi termini; mi pare torni a complicarsi fino al limite dell’inverosimile. Sì, lo so che l’inverosimiglianza non è un concetto per matematici. Comunque siamo di nuovo al largo; perdiamo completamente i segni; il valore assoluto della nostra insofferenza ci arriva quasi al collo; il mare di merda in cui navighiamo non ci dà tregua, insomma, e stiamo inesorabilmente affondando dentro al caos che affolla i nostri sensi scompaginati. C’è mancanza d’aria, o forse di un odore che marchi una direzione di nobile speranza e ci tragga fuori da questa terribile onda che sale e ci sommerge della sua mortifera pestilenza. Apro il frigo e provo a trovar lì una via d’uscita. Formaggio della Val di Fassa. Ecco forse un odore a cui val la pena tener dietro. Taglio un lembo di quella polpa e ne osservo la crosta, che non butto. Puzzone di Moena. Lo assaporo masticando piano mentre guardo il sovraffollamento caotico di scatole, buste, vasetti. Metto a fuoco la vista. Il mio frigo è una cartolina di un paesaggio antico. Meglio, un plastico, uno spaccato di presepe senza che ci sia nulla a renderlo sacro. Dalle montagne sullo sfondo scende giù una colata lavica di uova in disfacimento e ciliegini. Davanti, un trancio di speck trentino pare il teatro di Pompei pochi attimi prima della tragedia. Le uova non possono recriminare, godono di altre facoltà semmai. Le uova del mio frigo hanno finito di rammaricarsi. Diventando frittata nel frattempo. Dovrò senz’altro dare una pulita. Per evitarmi quell’odore che non tarderà a invadere l’aria, la strada oltre il cortile, e i campi in lontananza. Il frigo è lo specchio dell’anima. È rifugio di personaggi inquieti che girovagano alle tre del mattino senza prendere sonno e senza più niente da scrivere o discutere con Dio. È il pollaio di ingordi individui che vanno a caccia come la volpe quando qualcuno o qualcosa la spinge fuori dal bosco costringendola ad avvicinare il villaggio. È il passaggio a nord ovest di avventurieri stanchi. L’ultima via di fuga per gente disperata e assalita da un’ombra scura di fame. Il frigo deve ritornare a se medesimo penso, trasformarsi di nuovo in elettrodomestico, macchina utile a serbar cibo con ordine e parsimonia. Mi procuro una grande scatola marrone e comincio a tirar fuori ogni schifezza: il teatro di Pompei per primo. Poi aggredisco il Vesuvio e piccono deciso la colata che da lui scende in piano. Tolgo il puzzone, le uova intere e le altre. Mi accorgo che alcune sono già maionese. In questa notte di fantasmi e minacce che incombono da ogni luogo della Terra e dagli spazi intorno a essa mi ritrovo a riempire una scatola di avanzi e forme di vita passata che si ribellano e reclamano anche loro una fuga di prigione. Vasetti, plastica e buste, tutto fuori. I ripiani in vetro diventano poco a poco un deserto di sterpi, vuoti e sporchi di una patina che non sarà semplice cancellare. Un velo opaco di unto resiste al mio olio di gomito, neanche il Resol può nulla, non mi arrendo però e ricomincio fino a farli diventare quel cristallo che non erano neanche da nuovi. Adesso le birre. Ce ne sono quattro di bottiglie e ognuna si porta appresso una sua ragion d’essere. Una Weiss belga godibile e forzuta; una rossa di artigiani umbri per le sere che tiro più a lungo del solito; una birra di frumento sopravvissuta al freddo di questo inverno, e l’ultima bottiglia, una Beck’s da 66, condizione poco più che necessaria (e sufficiente), non sia mai detto, a una Napoli DOC. Non c’è vino bianco nel mio frigo questa sera. Mi pare quasi un’orrida e gratuita bestemmia. Eppure è così. Da chiedermi scusa allo specchio. Vedo gli affettati in vaschetta però. Prosciutto arrosto, crudo di Parma e mortadella. Mi chino un poco per guardare in basso, nell’ultimo scomparto, e trovo mostarda e salsa tartara. Mi piego ancora un po’, anche se con grande fatica. La fatica non mi arriva dal peso degli anni che tutto sommato è in certa misura ancora sostenibile. La fatica è figlia dei centosettanta chili di grasso che mi porto addosso. La fissa del frigo, dicono, sia l’effetto. Il male, cioè la causa, sta chiuso dentro a pensieri sciocchi e poco ribelli. Se vuoi esser sano devi ribellarti sempre. A ogni cosa gli uomini ti costringano. Tu ribellati. Ne va innanzi tutto della tua salute fisica. Non credo di aver tempo utile al dimagrimento oramai. Perché ho dimenticato il passo alla rivolta e non combatto più guerre che sono irrimediabili e perdute. Si combatte quello che ci è dato combattere. Si rimane invece svegli nel buio ad aspettare il giorno, e planargli addosso come certi aeroplani con ali di cartone prossimi a una pista impolverata che non consentirà loro altri decolli. Dovremmo atterrare tutti laddove nessuno verrà più a chiederci conto di nulla. Nel frattempo, di notte, capita di svuotare il frigo e magari cogliere un pensiero che pare inedito dietro quel suo affacciarsi di leggiadra allegoria. Ti curvi in cerca di qualcosa che speri stia nell’ultimo scomparto in basso. Sai già che non troverai nulla. Ma tu ci provi lo stesso. Mi sdraio a terra dunque, in preda alla mia disperazione. Sarà impossibile rialzarsi. Dovrò attendere qualcuno domani che mi aiuti. Non basterà mia moglie che pure è forte. Sono steso sul pavimento e faccio giochi con le braccia. Le allungo e le ritiro immaginando di essere in un letto di sabbia. Chiudo gli occhi e osservo un cielo al nero di seppia. Non ci sono stelle che prestino luce al soffitto della mia cucina. Non c’è neanche la luna. Non la trovi mai al suo posto la luna quando serve. Perché? Le auto, fuori, strisciano sulle strade a un ritmo regolare e la pioggia accompagna quel loro allontanarsi picchiando contro i vetri della finestra come fosse il suono di un charleston. Provo a fare forza su una gamba. Poi sull’altra. Spingo con gli addominali. Non serve, non riuscirò mai a sollevarmi neppure di un centimetro. Comincio a sentir freddo lungo la schiena. Non intendo svegliare mia moglie. Non potrebbe nulla da sola. Forse spostandomi su un fianco e avvicinandomi al mobile… Provo ancora. Riesco a muovermi di quel poco che ne risente tutto il mio equilibrio. Faccio di nuovo forza sull’addome fino a ruotare di novanta gradi. Ho la faccia rivolta al frigo. È un punto di vista insolito il mio, nonostante il viso tenda al frigo come il ramo di parabola a più o meno infinito. Si sa, spesso i punti di vista insoliti regalano sorprese fantastiche. Eccole, le mie sorprese. Nascoste sotto l’ultimo scomparto, invisibili al mondo, non raggiungibili da coloro che vivono adagiandosi a un piatto e stucchevole conformismo di routine. Il conformismo delle persone che non sanno trovare alternative di confronto con i loro simili, o con il frigo in cucina. E non hanno neanche mai provato a immaginare approcci differenti. Non ricordo da quanto tempo avevo infilato le mie cose qua sotto. Otto, nove anni forse. Non ricordo neppure il motivo che mi spinse a nasconderle in un posto così assurdo. Le ho cercate invano non so quante volte e in qualunque parte della casa. E a un certo punto ne ho pure dichiarato con dolore e rassegnazione la morte presunta. “Perché qua sotto?” mi chiedo adesso. Nascosi nel frigo le mie cose per non vederle invecchiare con me. Perché il fresco ne conservasse a lungo la sostanza che il mio cervello sapevo avrebbe prima o poi lasciato esalare come benzina di un serbatoio vecchio. Le vedo ora, scorgo le loro costole, ne percepisco il respiro. E so che arriverò a domani ancora vivo per aver lottato una notte da vincitore contro il macello del tempo che rilascia sempre i suoi ostaggi anche se con ricatti ignobili. Riesco perfino a leggerne i titoli. Eccola, la mia storia. Che si fa in tre. La mia giovinezza abbarbicata sull’Altipiano di Asiago, nel fango delle trincee di Emilio Lussu e dei suoi schifosi eroi di una guerra ancor più schifosa. La maturità poi, sconvolta da quel prodromo di tempesta che fu Rubber Soul. Il peso della farfalla infine, vero bagno caldo al terzo e ultimo tempo. Tre storie che avevo nascosto per il grande timore di smarrirle. Ricordo tutto quanto. Perfino i dettagli. Storie che a pensarci bene non è valsa la pena aver tenuto solo per me, che si lasciano raccontare senza che il loro sgranarsi a ritmo di feroce malinconia diventi inutile affanno di emozioni. Hanno fatto di tutto per elevarci a potenza, certe storie, tracciando segni sui sentieri imprecisi che abbiamo attraversato, e che via via si sono chiusi inesorabili alle nostre spalle. La forma breve ne racchiude una forza smisurata. La portata è inversamente proporzionale al numero di parole spese. Possono capitarci a qualunque età. Leggiamo o ascoltiamo in cuffia. Impariamo così di nuovo a leggere e ascoltare. Ed è come se i muri di casa riprendessero un vecchio e sopito respiro e ci facessero dono di quell’ossigeno prezioso al nostro cuore e al nostro sangue. Provo a dormire adesso e immagino un mattino che si porti appresso un suo vigore di luna, residui di buona speranza, soprattutto braccia giovani e robuste a rimettermi in piedi.
segue: Finale di storia