
“Prima di prendere sonno rimase sveglio a lungo. Dopo un po’ si girò a guardare l’uomo. Il suo volto rigato di nero dalla pioggia alla debole luce della lampada, come certi teatranti del vecchio mondo. Ti posso chiedere una cosa?, disse.
Sì. Certo.
Noi moriremo?
Prima o poi sì. Ma non adesso.
E stiamo sempre andando a sud.
Sì.
Per stare più caldi.
Sì.
Ok.
Ok cosa?
Niente. Così.
Adesso dormi.
Ok.
Ora spengo la lampada. Va bene?
Sì. Va bene.
E dopo un altro po’, nel buio: Ti posso chiedere una cosa?
Sì, certo che puoi.
Tu cosa faresti se io morissi?
Se tu morissi vorrei morire anch’io.
Per poter stare con me?
Sì. Per poter stare con te.
Ok.”
Ho appena letto il mio primo libro in quest’inizio d’anno pandemico numero 2. Un anno che si apre nel segno del suo predecessore, proiettandoci però verso una dimensione nuova, in un gorgo fatto di abitudine e genuflessa sottomissione al virus, alle distanze e all’isolamento. Comincio a sentire il lamento affievolirsi. Parlo del mio lamento, che è la mia voce. Alle camere intanto strillano; battono i pugni certi personaggi cupi (gli stessi teatranti di sopra forse), bramosi di affondare il paese dentro alla merda di un pozzo profondo nel tentativo disperato che fanno per salvare invece il loro orto che a quel pozzo si nutre e da cui si rigenera col passare delle stagioni; ma io non mi ritraggo, né da loro, e neppure dal resto della compagnia, perché l’ho già fatto; sto sul bordo della vasca da bagno e aspetto i cadaveri dei miei nemici; sono preda di un vento malinconico di ritorno che infetta il mio spirito e mi svilisce. Rimango in casa senza troppa angoscia, ed a sera cerco pigro tra le pagine sparse nei miei cassetti e sugli scaffali intorno spunti utili che spero ogni volta possano servirmi all’innesco di una rinnovata passione alle cose del mondo. Ascolto musica prima di addormentarmi e scopro nuovi motivi di un’America distante oceani e continenti interi a cui tendo l’orecchio in modo naturale fin da quando ero ragazzo. Ma non basta, ovvio. C’è un libro con una costola bianca che intendevo leggere da una decina d’anni, di più forse. Scorro la quarta di copertina anche se non serve, mi stendo sul divano e lo mando giù in un fiato, quasi senza accorgermene. S’intona al mio umore, mi tiene a galla in questo tratto di tristezza distante da riva, dove non tocco; smaschera quel po’ di dignità che la mia stessa tristezza si porta appresso, e che non so scovare da solo. La mette a fuoco per mio conto, me ne dona il gusto amaro e dunque prelibato. Lo fa, la storia di McCarthy, nel suo feroce e burlesco girotondo di vicende minute che si ripetono uguali a se stesse per duecento pagine: un padre e il suo bambino provano a fuggire da una morte promessa all’insegna di un viaggio inutile e abbacinante verso nessun luogo. Il paesaggio che l’autore tratteggia non è roba da escamotage scenica. Assurge a protagonista indiscusso dell’intero racconto e le due figure senza nome che lo attraversano sono parte di esso: le strade decrepite, i ponti crollati su fiumi ridotti a una striscia immobile, i campi e le case popolati di morti in decomposizione, ed il bosco che ripara e protegge. Il bosco, rifugio quotidiano dove nascondersi e lasciarsi andare ad una febbre che sarà l’ultima. Il bambino però, più dell’uomo, ha il cuore pulsante che si staglia contro la natura in cenere che lo circonda. L’adulto è mosso solo dagli scatti d’una nervatura animalesca che destina le ultime forze ad un’idea di salvezza qualunque ed a ogni costo. Il piccolo è lucido invece, custode autorevole di un’umanità genuina che si rivela ancora più lacerante nelle continue richieste d’aiuto lanciate al padre; aiuto che non vuole per sé, ma nei confronti di quei viandanti affamati e spersi su una strada di una terra che ha già esalato gli ultimi respiri. In questo dramma, più avventuroso che distopico, è il bimbo a consentirci di rimanere in equilibrio sul filo; ed è ancora lui a far pratica dell’idea (grandiosa?) per cui si possa vivere sfuggendo all’illusione che salvarsi significhi alla fine farlo da soli.
più che una recensione è una chiave di lettura, racconto esso stesso, emozionante.
Vorrei non sentirmi dire che sono di parte. Se ti accompagno in questa vita è in queste parole.
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Tu non sei di parte. Tu sei parte.
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Come romanzo di fantascienza è molto bello anche quest’altro: https://wwayne.wordpress.com/2021/05/01/scopriro-la-verita/. L’hai letto?
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Mai letto. Ti ringrazio della dritta.
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Allora sono onorato di avertelo fatto scoprire: è un capolavoro. Colgo l’occasione per dirti che mi sono appena iscritto al tuo blog. Grazie a te per la risposta! 🙂
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