
Preferisci Lennon o McCartney? Eh no, cazzo! Come chiedere: “Padre, figlio o spirito santo?” Un buon cristiano tira in ballo la santissima trinità e tronca lì il discorso. E come fai a dargli torto? George e Ringo poi, dove li mettiamo? Lennon e McCartney non hanno mai fatto ombra l’uno all’altro, tanto vasto era lo spazio che li separava. Un po’ come Stanlio e Ollio, Fred e Ginger o Madame Curie e suo marito. Insieme, e ciascuno a suo modo, si dettero da fare per rovesciare il mondo e renderlo migliore. Lo capisci se provi solo ad avvicinarti alle loro arti genuine che continuano a pervadere l’aria di odori densi e straordinari. E non poté essere altrimenti, dico io. Lo capisci, ad esempio ‒ tornando a parlare dei Nostri ‒, quando ascolti Rubber Soul o l’Album Bianco, tanto per citarne due a caso (ma non troppo). Lennon e McCartney scrivevano e il giovane George nel frattempo cresceva come una pianta che lo fa in fretta. Aveva lasciato infoltire la chioma e messo insieme fraseggi nuovi; incontaminati quasi, prima di riuscire a donarci, in un effluvio di estasi e magia, le sue perle rarissime: Here Comes the Sun, While My Guitar Gently Wheeps, Something, più di ogni altra. George non era mai stato né Paul né John. Se lo spirito santo avesse potuto scegliersi un alter ego qualunque, pescando a caso nel vorticoso trascorrere delle vite, quaggiù, sul nostro piccolo pianeta ai margini della Via Lattea, dalla trilobite in poi, avrebbe puntato il dito, forse, verso il giovane George. E lui, Paul, John e Ringo, non insieme (non soltanto o semplicemente insieme), sotto forma piuttosto di hegeliana sintesi che si eleva allo splendore dello Spirito Assoluto, divennero un nome solo che alle volte si ha persino timore a pronunciare. Se nella mia vita ho davvero creduto in qualcosa di alto e misterioso allo stesso tempo è in quella sorta di psichedelica fusione delle idee di cui certi personaggi si fanno interpreti per un dato istante nella Storia, scombinando, senza neanche volerlo, il tavolo secolare degli eventi. Dentro gli studi di Abbey Road, e ancor prima su palchi dagli impianti sonori miserrimi, oppure in tv da Ed Sullivan, accadde questo. Ho sempre pensato che The Beatles fosse un Moloch. Sono diventato grande, poi un poco più adulto; sono giunto ai margini della vecchiaia facendo un giro largo nel grande circo della musica; alla fine sono tornato al punto di partenza. Ho scoperto che quei quattro piccoli mostri capelluti continuano a piacermi e a divertirmi, come quando ero un ragazzino di prima media senza neanche l’ombra di un pelo matto al posto dei baffi da uomo (io non ce li ho mai avuti i baffi da uomo). La mia prima volta fu nel 1979. Tutti si ricordano della loro prima volta. Anch’io rammento la prima volta che ascoltai Help! nel soggiorno di casa, giù al piano terra. Trovai due 45 giri con l’etichetta bianca e la scritta Parlophone in una cassa di legno che ne conteneva qualche centinaio di tutti i generi. Il clan di Celentano, Morandi, Paul Anka, Bobby Solo, The Platters, Nirvana (no, scherzo dai, i Nirvana no) avevano tutti una copertina con le loro belle facce dipinte sopra. I Beatles ‒ gli unici in mezzo a quella cascata di dischi ‒ non ce l’avevano. Stavano buttati laggiù senza un verso, quasi senza motivo. Come corpi estranei. Fu quella la prima cosa a colpirmi. Avevo già sentito il nome Beatles in passato, da mio padre, e da mio cugino più grande. Poi era trascorso del tempo e di quel nome avevo perso le tracce. Credo comunque che mi fosse fermentato dentro. Esistono strane entità (le cui sembianze possono corrispondere a immagini, suoni, nomi o altro) che ci passano a fianco in certi momenti della nostra vita, toccandoci appena, e quasi non ci accorgiamo di loro; ne percepiamo una presenza lieve, soltanto accennata, che dimentichiamo subito, fino al giorno in cui non torniamo a sbatterci il naso contro, e lì, in quella circostanza, scopriamo che il caso è un animale strano, intelligente, e in fondo anche un po’ bastardo. Come dire che siamo tutti legati a milioni di fili che ci impongono scelte tirandoci verso una direzione piuttosto che un’altra. Non sappiamo sempre quale seguire, e spesso non sappiamo nemmeno scorgerli quei fili. Sono sottilissimi, e anche quando ci pare di averli imbrigliati tra le mani non si lasciano prendere facilmente. Ci sfuggono di continuo; poi capita che riusciamo a farne nostro uno tra i tanti che abbiamo sfiorato. La vita è un intreccio di milioni di fili e le possibilità che abbiamo di afferrare a ogni occasione quello giusto crescono o muoiono dentro di noi, in un punto impazzito che si sposta tra cuore, testa e spina dorsale. The Beatles è uno di quei fili segreti che mi tiene stretto alla mia avventura qui in mezzo agli uomini. Semmai possa davvero nutrire l’illusione di appartenere a qualunque cosa somigli a una situazione reale. Vuoi sapere perché considero The Beatles prezioso come l’ossigeno che respiro? Perché fu così che da piccolo tentai una ritirata dal mondo esterno, palpandone, al di qua, i confini tra sogno e immaginazione. The Beatles tracciò la mia via indolore a un’idea di solitudine in mezzo agli altri. Quella musica, e ancora di più le voci, sono il richiamo primitivo a un’intuizione di intima libertà la cui quintessenza ancora oggi mi sfugge; la prima sensazione, o consapevolezza di me, ben oltre ciò che i miei sensi di bambino ubbidiente e gentile rimandavano indietro dal tempo e dai miei luoghi di appartenenza. Fui io, da solo, a lasciare che The Beatles entrasse nella mia vita. Nessun altro. Avevo undici anni. È stata una delle cose più grandiose che mi sia mai capitato. Poggiai il disco sul piatto e mossi il braccio con il dito indice facendo cadere la puntina sul bordo esterno. Poi ruotai la manopola fino a dieci. La stanza fu invasa da un lamento di malato terminale alle vie respiratorie che prova a schiarirsi la voce un attimo prima di crepare. Lo scricchiolio che uscì fuori dalle casse mi scaraventò contro il muro. Reagii gettandomi a corpo morto addosso all’amplificatore, abbassando di colpo il volume nell’istante esatto in cui il tizio malato cominciò a strillare “Help! I need somebody, Help! Not just anybody, Help! You know I need someone, Heeeeelp…” Da quella frase, allora incomprensibile nelle parole, eppure già leggibile nella sua angoscia strappata all’aria intorno, è cominciato tutto. Quella frase, gettata al vento dalle casse in legno dello stereo Minerva di mio padre, mi lasciò in balia di un’onda confusa tra pensiero lucido e abbaglio, una di quelle onde che si gonfiano in mezzo all’oceano fino a diventare giganti, seppure non riescano mai a infrangersi contro nessuna riva. Sono trascorsi molti anni da quel giorno, il mondo ha cambiato i suoi connotati, l’est e l’ovest si sono ritirati al di qua della Tosco-Romagnola, il tempo mi ha regalato narrazioni private di genere vario. Lennon è morto (o forse non è morto mai). E non è stato il solo. In tanti abbiamo conosciuto un po’ di cose nuove. Nuove idee e storie. Nuove facce e parole. Nuove strade. Nuove frontiere, dentro e fuori. Nuove sconfitte, e una febbre che non si cura più. Abbiamo spalancato gli armadi anche, per fare “Bubusettete!” ai nostri scheletri. Abbiamo pure imparato quel poco di inglese sufficiente a tradurre qualche canzone che credevamo buona, e che forse era meglio lasciare che si conservasse al nonsenso di uno slang che ci eravamo inventati, in un gioioso e profondo delirio onomatopeico. Abbiamo abbandonato il vinile e i cd. Ci stiamo dimenticando perfino di YouTube e sentiremo ancora il grido di un giovane uomo giunto al culmine della vita; un uomo che non ce la fa più e chiede aiuto a chiunque possa liberarlo dal suo male; un uomo il cui smisurato talento fu quello di tenere sospeso sul limite dell’eterno il suo segreto, che di quel male è il primogenito frutto. Se la mente non spariglia i ricordi come fossero carte di un giro a chiudere di scopa, è cominciato più o meno tutto così.
segue: Intermezzo uno