Racconti dentro a una scatola (1)

L

La scoperta

Mia madre già da qualche tempo mi chiedeva di venire un giorno e vedere cosa potesse essere conservato (per chi, mi ero chiesto all’inizio, e per quale motivo?) e cosa dovesse essere invece buttato una volta per sempre.
Scatoloni con dentro tutto. Tutta la mia vita di ragazzo. Io che ragazzo non lo sono più da un numero indefinito di stagioni. Tutto. Appunti su carta, quaderni scritti, altri pieni di scarabocchi incomprensibili (mi viene alla mente un periodo in cui ero orgoglioso della mia arte nel mondo dell’astrattismo), libri delle medie, scartoffie del liceo, dischi, gingilli dimenticati, trofei che non ricordavo di aver mai vinto, lettere d’amore, verbali dei carabinieri, cartoline di luoghi assurdi, un libretto di circolazione del mio vecchio (carissimo) Ciao rosso, messaggi ermetici in entrata e in uscita, altri fogli dal contenuto indecifrabile. Avrei bisogno anch’io di un ufficiale napoleonico. Che ritrovasse una nuova Stele di Rosetta. C’era dell’altro negli scatoloni di mia madre. Una collezione di poesie bellissime scritte da un mio amico che sapeva scriverle, e che dovrò restituirgli, e ho trovato anche cose che non mi appartengono e che non restituirò mai più. Quelle cose che qualcuno ti presta e che devi dare indietro a un certo punto, ma non lo fai, e il tempo passa, e poi ne passa ancora, e ancora dell’altro. Colgo al volo l’occasione per chiedere scusa a tutti. Se vi ho fregato un po’ di roba, ebbene sì, sono un grande stronzo. Quello che vorrei spiegare però è che non l’ho fatto perché sono ladro dentro. Una buona dose di cialtroneria, questo sì, mescolata a una innata pigrizia d’animo. Sono legato al palo delle cose incompiute. Non ce l’ho dentro. Finire le cose intendo, addirittura ricominciare daccapo dopo un primo fallimento. Non mi viene, faccio fatica. Non ce l’ho e basta. Com’è possibile, mi chiederete? Non serve granché, tranne la serena consapevolezza del limite. Il caso e il tempo ci mettono del loro poi. Merito l’ergastolo per questo? Forse, o forse soltanto undici-dodici anni ai domiciliari (con l’obbligo di svuotare tutte le scatole di casa).
Chiedo scusa a Serena che nel 1984 – era l’84, lo stesso anno in cui comprai il quarantacinque di Flashdance – mi prestò La donna cannone di Francesco De Gregori. La donna cannone e Flashdance, come Sandokan e il gruppo TNT. I Metallica e Michel Telo. Renzo Piano e l’Ikea. Vabbè, a parte gli accostamenti improvvidi, accadde che passai il Q-disc di Serena su cassetta, per riporlo subito dopo nello zaino. Il giorno appresso il vinile rimase là dentro. Credo mi abbia accompagnato a scuola per tutto il secondo quadrimestre. Poi giunsero le vacanze d’estate e infilai il sacco da qualche parte nell’armadio, su in alto. Tre, quattro anni dopo che mi fu prestato, rigirandosi il disco di De Gregori tra le mani, il mio amico, quello che scriveva poesie, vedendomi a disagio per uno strano quanto inspiegabile senso di colpa, mi disse che ormai non importava che cercassi Serena per darle quello che era suo. “Secondo me devi startene tranquillo per via dell’usucapione”. L’usucapione. Serena mi avrà odiato nel profondo per questa e per mille altre ragioni.
Gli scatoloni nascondevano, oltre a tutto quello che avevo usucapito, tesori dal valore inestimabile. Un modellino di Centoventiquattro Sport color azzurro; una penna Bic a sfera completamente esaurita che avevo conservato, lo rammento bene, perché era stata l’unica nella mia vita di studente consumata fino all’ultima goccia d’inchiostro; un taccuino di appunti sulla terza repubblica francese (ohè, un taccuino sulla terza repubblica francese!); un braccialetto di metallo regalatomi da una ragazza bellissima che frequento ancora oggi; un album Panini dei mondiali dell’82.
I mondiali dell’82.
Ho aperto l’album a caso e l’ho richiuso all’istante, altrimenti avrei dovuto andarmene in vacanza per una settimana. Quando mi deciderò a sfogliarlo, lo so per certo, dovrò gustarlo piano, poco alla volta, pagina per pagina. Figura dietro figura. N’Kono Milla Boniek Smolarek Tarantini Passarella Zico Falcao Antognoni (Antognoni!) Conti. Mi si spalancheranno le porte del paradiso nel rivedermeli, i mondiali dell’82. Anche solo dalle pagine di un vecchio album Panini. Non si tratta insomma solo dell’Italia di Zoff Gentile Cabrini Oriali Collovati Scirea…
I mondiali dell’82 portano in grembo quello che Giorgio Bocca definì la vera grande sciagura della mia generazione e non solo. Ha ragione lui in un certo modo: i mondiali dell’82 furono il nostro incontro a Teano, anche Vittorio Veneto furono, il nostro 8 settembre e il 1° di marzo a Valle Giulia. Ma io che colpa ne ho? Avevo quattordici anni nel 1982. Penso che il pomeriggio del Sarrià e la notte del Bernabeu non meritino un capitolo a parte sui manuali di Storia patria contemporanea, magari soltanto una citazione d’appendice.
Cos’altro dentro gli scatoloni? Porcaeva. Il mio libro. Il primo libro che nella vita riuscii a leggere in un soffio lieve come l’aria, da giovanissimo, nella mia camera a notte fonda. Il libro che ho continuato a leggere e rileggere negli anni a venire. Nello scatolone ho ritrovato la vecchia edizione Einaudi dalla copertina rigida. Lo avevo pescato per caso nella libreria dei miei e in modo altrettanto casuale avevo cominciato a sfogliarlo dapprima distratto, poi sempre più teso, fino a trovarmici anch’io dietro le feritoie di morte e in compagnia di quegli uomini scolpiti da Lussu nelle sue pagine. Anch’io (sciocco che non sono altro) avrei voluto essere come tutti loro, solo per un attimo. Anch’io avrei voluto la mia dose di autentica disperazione. Anch’io avrei voluto respirare la stessa polvere, lassù, sopra l’altipiano dei padri dei nostri nonni (sciocco che non sono altro al quadrato).
Ho trovato anche un poster negli scatoloni, malamente ripiegato, che ho dovuto stendere con cura per via delle facce incollate fra loro dall’umidità e dal tempo. Il poster della mia camera. Ne avevo due in verità, appesi alle pareti opposte, uno di fronte all’altro. Là dentro erano sopravvissuti quattro giovanotti in bianco e nero, ancora sorridenti e belli come pochi, raccolti attorno agli strumenti di lavoro, ignari nelle espressioni sorridenti dei volti che le loro canzonette non le avrebbe fermate più nessuno. Nei secoli dei secoli.
E poi ritagli di giornale. Vecchi ritagli. Del giorno che scoppiò il grande casino. Partecipai da protagonista al grande casino. Una mattina di un autunno ventoso. Io, Cactus solitario, Fragola ciucciata, Ragno peloso e Grillo del deserto. Devo fermarmi qua però, ci sarà tempo e modo di tornare su questa storia prima o poi.
Gli scatoloni di mia madre dicevo.
“Guarda che porto tutto ai cassonetti. Lo faccio sul serio”. La conosco. Non fingeva. Era una minaccia la sua. L’avrebbe fatto eccome. Allora sono andato e ho cominciato a tirar fuori roba. Ho diviso quello che non sarebbe più servito da quello che non sarebbe più servito ma che non ce la fai. Non ce la fai a buttare nel cesso. Non so se è capitato anche a voi. Di avere scatole con dentro la vostra vita. Quando le svuoti hai di fronte una forza uguale e contraria. Ho pensato che Galileo avesse scoperto una delle sue leggi in presenza di uno scatolone. La catasta fuori aumenta e i cartoni, all’interno, continuano ostinati a rimanersene pieni a metà. Guardi la catasta fuori, poi giri la testa, e guardi quella dentro. Arriva un momento che ti chiedi cosa stai facendo. Che senso ha spostare quella massa magmatica di cianfrusaglie preziose.
“Devo procurarmi un’altra scatola e mettere lì tutto quanto”, pensi. Poi ti accorgi che hai pensato una emerita cazzata. Tanto vale usare la scatola vecchia. E continui a tirar fuori ammennicoli rimandando a dopo la decisione su cosa tenere e cosa buttare.
“Avrò bisogno, in ogni caso, di un contenitore più piccolo.” Mai arrendersi.
Non si può parlare poi di quello che torna vivo, nel rivedere, toccare, annusare e rileggere. Fai scoperte inaudite, sospetti perfino, in certi passaggi, di essere…Beh, non ti senti più quello di prima. C’è un po’ di vergogna, di imbarazzo. Torni un ragazzo timido quasi. Ti cambiano dentro gli scatoloni. Spostano l’asse. Disancorano la prua. E nessuno che getti a mare una scialuppa. Gli scatoloni hanno un fondo che ti chiama a lui.
Contengono anche il mistero. Figurarsi.
Ho tolto tutto. E’ rimasto, alla fine, incastrato dentro a una di quelle lingue tipiche di tutte le scatole da trasloco, un quaderno con la copertina marrone e le pagine di carta giallognola con il filo verticale a tenerlo chiuso. Non avevo la minima idea di cosa fosse. Non era mio, non lo era mai stato di sicuro, e non mi ricordavo di averlo chiesto a qualcuno (l’usucapione in questo caso non valeva). Ho esitato alcuni attimi prima di aprirlo. Sapevo bene, e questo fa già parte del mistero, che non era un quaderno vuoto, da riempire e basta. Ho tolto il laccio e col pollice ho fatto scivolare via, veloce, le pagine. Era scritto per intero. Mi sono soffermato sul primo foglio senza riconoscerne la grafia. Ignoravo a chi appartenesse. Poi ho ricordato alcune parole di mia madre. Qualche tempo prima mi aveva accennato a suo strano sogno. Un uomo senza volto, “…una faccia nascosta dall’ombra di un cappuccio…” erano state le sue parole. Quell’ombra le aveva regalato qualcosa che nel sogno non era riuscita a mettere a fuoco. E lei non si era posta il problema di cosa fosse. “Dov’è che devo conservarlo?” aveva chiesto soltanto.
“Non so bene dove tu possa nasconderlo. Credo però che lo scatolone sia il posto giusto” aveva risposto l’ombra.
Il quaderno marrone. Racconti, e qualche abbozzo di lettera.
Ho iniziato a leggere. Capire è più difficile.
Per capire davvero avrò bisogno del mio tempo (chissà quanto ne occorrerà).

continua

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