5/3/2022

La guerra. Le voci mi annodano la gola, la disperazione che infilza quelle voci. Che è disperazione di popoli. I treni stipati in partenza. Non sono orrore, mi dico. Cercano solo una via di fuga. Il sottofondo. Non suona una canzone dei Nottin Hillbillies, che ascoltavo (riascoltavo) dieci giorni fa quando il mondo era un altro. Sì, perché ho la fissa del tempo perduto io. E le canzoni dei Notting Hillbillies sono lì, dentro a Spotify, per questo. Musica che mi regala il come, qualche volta anche il dove, quasi mai il perché delle mie fughe al passato (per dirla con Tabucchi). Il sottofondo. Non una canzone triste. È un’onda che sposta il silenzio ai suoni sordi delle esplosioni. Guardo la tv, apprendo i numeri dei civili morti nei bombardamenti. È un periodo di invasioni il nostro. Virus, eserciti, cifre. Siamo invasi da cifre che si aggiornano all’indefinito. Drammatica conta di uccisi, trasloco macabro di cadaveri. Dalla pandemia da Covid senza un boia che debba essere condotto in manette a Norimberga alla pandemia da combattimento senza uno straccio di senso compiuto. La guerra, mi ha detto un amico, è un film di vecchia memoria trasmesso in diretta per i nostri schermi ad alta definizione. Il padre è riverso sul figlio e impazzisce all’idea che il ragazzino sia stato spazzato via mentre era in strada col pallone fra i piedi tra una sirena e la successiva. La madre tiene per mano la piccola e con l’altra stringe a sé il Kalashnikov. Lancio uno sguardo al Samsung che s’illumina al polso richiamandomi all’ordine. Mi dice il giorno e l’anno prima ancora dell’ora. Siamo al 5 marzo del 22 nel primo secolo del terzo millennio. Tempo presente, forma indefinita ed incomprensibile come un gerundivo da perifrastica che fa strage di gente inerme. Kiev delenda est. E la guerra esplode, e ci riguarda da vicino stavolta. Eccome. Le città ucraine s’infiammano e il fuoco divampa nel mezzo dell’Europa, non distante dai posti che Hitler scelse nel settembre del 39 per dare il via al suo disegno folle. Sappiamo tutti come finì e quanto costò “all’immenso uman carname”. Sarà la mia fissa del tempo e delle cose perdute, oppure i miei cinquanta e passa anni che non mi consentono più ricerche di campi lunghi in divenire. Ritrovo foto vecchie della mia città ridotta a una gigantesca e aggrovigliata maceria inerte. Era il gennaio del 44. Alzo la testa, passano le immagini di Kharkiv. È tutto uguale. Troppo, per essere vero.

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