
Entrai nel bar con lo stesso dolore che dalla pianta mi avvolgeva il collo del piede fino a stritolarmi entrambe le caviglie; tanto da dover afferrare un tavolo e trascinarmi con la forza di un dinosauro estinto (perché i dinosauri sono quasi tutti estinti ormai) a una sedia di metallo senza cuscino. Era come camminare su quelle spiagge di ciottoli e pietre appuntite che ti concedono un istante di tregua solo quando vedi da lontano un sasso levigato e piatto, e sogni di raggiungerlo in fretta e magari passar lì il resto delle tue vacanze. Non so da dove nascesse il dolore. C’era e basta, come un neo sul mento, o sopra la scapola destra. Mi sedetti e ripresi fiato e il respiro tornò alla sua cadenza di sempre. Il barman mi guardò come si guarda uno che passeggia per le strade in pieno luglio con la maschera e il mantello nero di Zorro. A luglio, si sa, indossi un altro costume, e semmai vai ai Bagni Sirena, non certo al carnevale. Alzai un braccio e la gente smise di parlare. La musica sfumò. Era una canzone che prendeva avvio da un arpeggio di una classica in minore. Non ho l’orecchio assoluto, ma avrei giurato si trattasse di un La diminuito. Rimasi fermo col braccio teso al soffitto. L’uomo dietro al banco aguzzò gli occhi, con il panno tra le mani, intento a strofinare un bicchiere. Credo volesse dirmi che non aveva voglia di sbattimenti a quell’ora tarda del mattino. Doveva servire Spritz e prosecchi e nient’altro. La macchina bolliva alle sue spalle e un profumo di caffè amaro ed erba selvatica invase la sala fino quasi alla saturazione. “Il cardinale ha scritto la legge, il lupo, il pastore, gli uomini, il gregge…” Conoscevo la canzone. Era valsa la pena ascoltarla perché non parlava di amori futili e gagliardi. L’assurdo stava nel sentirla suonare in un bar del centro di Liverpool. La canzone – tanto per non lasciar cadere il pensiero nel vuoto – racconta una storia truce di speranze mancate, lotte crudeli tra servi e padroni, e merita eccome una particina nel grande circo della musica d’autore nostrana (quella del secolo in corso almeno). Tenni il braccio al soffitto e parlai ovviamente in inglese: “Vorrei un caffè bollente al sapor di erba selvatica. E poi vorrei fare una domanda a tutti i presenti.” Alla parete sulla mia destra era appesa una stampa che riproduceva un famoso disegno di Dalì. Un pesce rosso, due tigri, un elefante con lunghe zampe a mo’ di trampoli e una donna nuda che si dimenava in un sogno che non le dava tregua. Fissai il quadro per un attimo. La donna era l’essenza immarcescibile dell’eros profondo e Dalì, pensai, un pazzo furioso con l’estro del genio vero. La gente del bar rimase in silenzio. Fuori gli uomini e le donne imprecavano e maledicevano il mondo. Quello stesso mondo invece, di qua dal vetro della porta, aveva scelto di ascoltarmi mostrando un misto di curiosità e imbarazzo. Un altro uomo vestito da pompiere, a pochi metri da me, appoggiò la sua tazza sulla vetrina dei muffin, mise in tasca le mani e rimase a fissarmi con aria di minaccia. Cominciò a piovere. Guardai fuori, vidi le gocce che si stampavano sulle vetrate intorno lasciando strisce diagonali e segni cuneiformi. Il rumore della pioggia mi fa impazzire. La pioggia sceglie sempre il ritmo che vuole. Prova qualche volta ad ascoltarla. Sentirai una polka e forse sarà una delle tue giornate tristi. Oppure uno swing e dovrai per forza schioccare le dita seguendone il tempo, e canticchiare magari qualcosa mentre immagini di avere la voce di Ella Fitzgerald o Peter Lawford. Tu che hai rinunciato troppo presto alla fatica di coltivare le tue corde dolci e affilate. Il pompiere era un vero pompiere, così come il barman. In piedi, qualche metro più in là, uno spilungone appoggiato con i gomiti su un tavolo alto quasi quanto lui aveva smesso di leggere il Times, s’era voltato dalla mia parte mostrandomi una cravatta con gli stemmi delle quattro repubbliche marinare al posto delle stelle su uno sfondo sbiadito di strisce bianche e rosse. Avrei giurato si trattasse di un impiegato di banca. Ma non potevo esserne certo. Come con il pompiere e il barman. La sua era una faccia normale, senza spigoli o altre sgradevoli storture. La cravatta un conato. Non so dirti il perché, però guardandola mi lampeggiò nella mente l’espressione idiota di un tizio che conoscevo e detestavo. Cercai di ricacciare indietro l’immagine torcendomi con le spalle in direzione di un gruppetto di ragazzi giovanissimi che a fatica avevano dovuto interrompere il loro ragionare accalorato. Uno di loro, di sicuro il brillante della compagnia, aveva alzato il braccio destro al cielo nella mia stessa posa. Feci finta di non curarmene, anche se lo impallinai dal basso della mia sedia per un secondo o due. Non si tirò indietro il giovane e rimase immobile col braccio levato come se volesse sfidarmi. “Embè, di cosa hai bisogno esattamente, ce lo vuoi dire o no?” suggerì col punto di domanda una signora alle mie spalle, avvolta dentro un elegante abito da sera color porpora. Ruotai il busto per guardarla, le sorrisi facendo segno di sì con la testa. Era una faccia che stava assieme per miracolo. Una faccia di vecchia che aveva rimandato la sua ora per un tempo troppo lungo. Non una faccia, semmai un poligono irregolare, con due tocchi di rossetto su una bocca piegata dai lustri che vi si erano ammassati sopra impietosi. A tradimento una fitta colse uno dei miei talloni e il piede mi parve andare in frantumi. Poi anche l’altro, così, tanto per non rimanere indietro, cominciò a bucarmi su tutto il palmo. Mi piegai di lato appoggiandomi al tavolino accanto a me. Credetti di cadere a terra. Qualcuno da dietro mi sorresse aiutandomi a ritrovare l’equilibrio. Respirai col naso e allungai le gambe in avanti. Il braccio sempre rivolto al cielo, provai a intercettare chi mi avesse afferrato evitandomi di scivolare a terra, ma non vi riuscii. Ci fu un istante, un solo piccolo e quasi impercettibile istante di silenzio. La burla, dovette pensare qualcuno, sta per trasformarsi in tragedia. Gli uomini e le donne, i giovani, i vecchi (non ricordo la presenza di bambini) raccolsero, in quell’attimo in cui il tempo si prendeva una pausa sul mondo, ognuno, i pensieri di una vita intera per trattenerli con uno sforzo immane nella buca dello stomaco. Il silenzio, dicevo: lo si poté toccare e perfino vedere. Il silenzio scolpito dentro occhi in balìa di un braccio teso in aria a chiedere non si sapeva bene cosa con la stessa disperazione di una gola secca che implora qualche goccia d’acqua a chiunque possa concedergliela al più presto. Ogni braccio alzato ha sempre il suo valoroso e spavaldo oppositore. Il giovane capobanda non aveva arretrato di un solo passo. Parevano, i nostri arti perpendicolari alla terra, reggerne tutto quanto il peso. Intendevano tenerne sotto scacco i destini, catturare la volontà e i pensieri di ciascuno, vicino e distante. La pioggia non smise. Procedeva con il suo andamento ritmato. Colsi una lucida ma non disperata rassegnazione di Dio in quell’imperterrito rovesciarsi d’acqua sugli uomini. Mi parve di sentire a un certo punto una vecchia ballata che cantava di un amore giunto al limite: “Ricordi, sbocciavan le viole, con le nostre parole non ci lasceremo mai, mai e poi mai. Vorrei dirti ora le stesse cose…” Ma dovetti sbagliarmi di sicuro. Non avevo mai sentito De André sotto la pioggia; non è tipo che si lascia, non dico costringere, neppure custodire in nessuna forma differente dalla sua. E la sua musica resiste ai bombardamenti e alla furia del tempo. Figuriamoci a un banalissimo temporale in terra inglese di fine novembre. C’era un teatro sublime in quella scena da bar, c’era tutto fuorché salotto. Entrò un barbone con due colpi forti di tosse. Ebbe un rigurgito poi, che lasciò presagire il peggio. Non vomitò perché fu assorbito un secondo prima in quella strana regia di fronte a lui. Mi guardò impaurito smettendo perfino di respirare. Ma a quel punto non so quanti continuassero a respirare vicino a me. Poi feci la domanda. Sgorgò come un corso d’acqua che attraversa la pianura per chilometri e chilometri e alla fine si abbandona al lago. Così, la domanda aveva, anche lei, navigato lungo il tratto dei canali stretti e bui nel mio cervello e aveva dovuto cambiare tragitto parecchie volte, tornare indietro, svoltare e provare di nuovo a prendere la via giusta per la foce. Il lago era il bar e la sua gente. Non potei trattenermi, fare nulla insomma, per costringerla ancora dentro. Non mi restava, alla fine, che porla, la mia domanda. Usai la pronuncia che mi era concessa, sforzandomi di tenere nascosta la R piuttosto che la C. “Che cosa ha davvero cambiato il corso delle cose? Quale elemento impazzito della vostra vita vi ha fatto nascere di nuovo, o, se preferite, costretto a ricominciare tutto da capo?” Abbassai finalmente la mano. Forse cessò anche la pioggia. La musica no, non riprese a suonare. Sentii solo un leggero fruscio. Era il barman che aveva ricominciato il suo levigare piano con lo straccio sopra il bicchiere. Un po’ a fatica mi sollevai dalla sedia. Anche il dolore ai piedi si era attenuato. “Ho cambiato idea, non voglio più il mio caffè. Nel tempo in cui anche tu pensi a una risposta, mi verseresti uno Zacapa per cortesia?” chiesi all’uomo che strofinava. Il pompiere fece qualche passo avanti continuando a tenere le mani in tasca. Cambiò l’espressione del viso però. Si riempì di rughe ai lati estremi delle guance, percepii in lui un fastidio latente, un turbamento quasi. Si fermò a pochi metri da me, nello stesso momento in cui la signora in porpora mi sfiorò la schiena da dietro, con il palmo della mano, girandomi intorno e avviandosi al bancone. Il barman le porse il mio Zacapa e lei, in un ancheggiare elegante, quasi maestoso, tornò verso me posando delicata il bicchiere nella mia mano. Alzai lo sguardo alla sala. Ruotai la testa verso tutte le persone presenti. La faccia del giovane (giovanissimo) capobanda non era più la stessa di qualche minuto prima. Non ci crederete. Fu lui a rispondermi. “Rubber Soul.” La ragazza vicino (la sua ragazza, penso) spalancò la bocca. Mi parve una smorfia di dolore. Lasciò cadere la mano lungo un fianco, la mano che fino a quel momento era rimasta attaccata al braccio che lui teneva appoggiato alla spalliera di una sedia. Lei strinse gli occhi mettendo a fuoco la vista. Mi osservò con una punta di timore. “Rubber Soul” ripeté il giovane. Adesso gli sguardi e l’attenzione del bar erano dalla sua parte. D’improvviso si erano dimenticati tutti di me. Anche lui abbassò il suo braccio. Stropicciai il colletto della mia t-shirt per lasciar passare aria. “Yeah, Rubber Soul!” fu l’eco dal marcato accento americano della signora in porpora. “Che significa Rubber Soul?” chiese la ragazza. “Si farebbe prima a dire cosa non significa, o meglio, cosa non è Rubber Soul, prendendo in prestito un vecchio, splendido, pensiero di un poeta che era anche concittadino del nostro amico qua di fronte” rispose il ragazzo. Adesso si guardavano i due, ma la distanza cominciò ad assomigliare a un mare profondo. “Era il mio compleanno quando mio fratello maggiore mi regalò il cd. Il mio dodicesimo compleanno. Scartai il pacchetto e guardai le quattro facce deformate sulla copertina. I loro visi mi lasciarono senza parole. Continuai a scrutarli per giorni, settimane, forse mesi interi. Non erano più i volti dei quattro giovanotti yé-yé di un anno prima, e i caschetti si apprestavano a diventare pure loro una cosa differente. La ribellione assumeva le sembianze della rivolta e del disordine.”
“Rubber Soul, wow…” la signora in porpora faceva fatica a riprendersi “… I bought that record in February. I think it was 1966.”
Feci cenno di sì con la testa, che probabilmente il 1966 era l’anno giusto. Non si curò dell’interruzione e prima di riprendere il suo racconto mi fissò come se volesse chiedermi che cosa già non sapessi di lui: “Ricordo la giacca di John, fantastica…” disse “… me ne sono fatta comprare una identica da mia madre qualche tempo più tardi, e l’ho indossata fino a quando ho potuto per via della taglia.”
Il pompiere s’intromise: “Non fare il furbo ragazzo. Rispondi alla domanda. Rubber Soul ha cambiato il corso della tua vita. In che modo? Come può un disco ribaltare tutto quanto?” Fino a quel momento avevo sempre creduto che i pompieri servissero a spegnere gli incendi.
“Ci stavo arrivando, Grisù.”
Ahi, cominciavano a volare colpi bassi. Il pompiere si ritrasse e serrò le labbra, il giovane non concesse pause a nessuno dei presenti. “Rubber Soul non era un disco, una semplice raccolta di canzoni, una roba da dare in pasto a chiunque. Non assomigliava per nulla a quello che la musica popolare era stata fino a quel momento. Non era il suono del passato, e nemmeno le storie che ci racconta sono le stesse di prima. Rubber Soul mi fece dono di un’idea grandiosa: potevo vivere senza essere felice a tutti i costi. Pensate alla forza che può sprigionare un cd. Rubber Soul mi ha salvato la vita. Perché fu buono a risintonizzarmi con lei. Ha messo a nudo il mio stare sofferente al mondo e al tempo stesso gli ha dato un senso, quando credevo fosse impossibile trovare un motivo vero per andare avanti. Se n’era andato mio padre, con una delle sue puttane, abbandonandoci tutti al nostro destino (dovrei dire ai nostri cazzi). Mia madre non riuscì più a venirne fuori e mio fratello era già troppo distante. Io cominciai a sprofondare e non c’era nulla a tenermi a galla. Ascoltai per lunghi giorni il rock ’n roll trascinante ed effimero di Drive My Car che cantava di auto e donne al volante. Pareva che Paul avesse saputo della nostra vicenda. Ma era un ingannevole incipit al disco. Furono le melodie di John a ripescarmi piano dal fondo. In My life, Girl, Norwegian Wood. E l’uomo inesistente (Nowhere man). Proprio come me. ‘Uomo inesistente ti prego ascoltami, tu non sai cosa ti stai perdendo. Uomo inesistente il mondo è qui, ai tuoi comandi. Prenditi il tuo tempo, senza fretta, lascia perdere tutto, finché qualcuno non ti darà una mano.’ Quelle musiche sono dense di un liquido da cui non ti prosciughi più. Mi hanno strappato la maschera innanzi al mio dolore, costringendomi a lui come le nuvole sono costrette al cielo. Si formano trasformandosi le nuvole, corrono veloci e fanno solo finta di scomparire. Da lì impari a vivere nel tuo grande spazio triste senza la smania di dovertene fuggire via una volta per sempre. Rubber Soul, rispondo. Mi ha trascinato in superficie insegnandomi a liberare il respiro. Appena in tempo. Davvero un attimo prima che i miei polmoni esplodessero, e io con loro.” Buttai giù in un sorso il mio Zacapa, e guardai una volta ancora Dalì. Dimenticai il dolore ai piedi, pagai quello che dovevo e chiesi al barman la strada per Strawberry. La sala si svuotò in fretta, la signora americana vestita in porpora si distese sul banco a mangiare uova lesse e maionese, e intanto recitava ad alta voce le parole di Michelle ora che la pioggia aveva di nuovo ripreso a battere forte sull’asfalto e contro i vetri. Il tempo, anche lui, placatesi certe pene inattese, ricominciò la sua corsa regolare a consumare piano il mondo.
segue: Intermezzo quattro