Guardando Kafka e Roth

Kafka è morto. E lo ha fatto per ben due volte. Leggendo i fatti, accadde una settimana prima dell’uccisione in Italia di Giacomo Matteotti. Lo scrittore boemo non fu nemico di nessun regime perché incapace di custodire nemici o forse perché in cuor suo lo erano tutti. Hitler, appena uscito dall’esito disastroso del Putsch di Monaco, stava scontando la sua pena nel carcere di Landsberg, dedito a mettere giù per iscritto la sua battaglia folle. Noi di qua dalle Alpi giocammo in anticipo sui tempi cupi. Il ’24 fu l’annus horribilis, l’occasione fallita per liberarsi anzitempo del mostro: al 10 giugno fece seguito l’Aventino, il tutto di fronte ad una monarchia inetta. Mussolini sbandò, non abbastanza per evitare al paese vent’anni di buio pesto. Kafka dicevamo. Visse a Berlino gli ultimi mesi della sua vita. Una delle due morti lo colse prima che potessero trascinarlo con le tre sorelle e gli altri milioni a Dachau o Auschwitz. Kafka, l’assicuratore ebreo col ciuffo nero e il naso appuntito. Kafka, genio ignaro, di sé e della sua arte, che scriveva e intimava all’amico di dare fuoco alle sue pagine. Succede di tanto in tanto a qualcuno, il cui lascito rimane inciso a fondo nella storia e nel pensiero degli uomini, di non dover scontare in vita la sua stessa ingombrante presenza; diviene preda di un destino postumo, magari gli capiterà alla fine di ritrovarsi in cerca del suo miglior autore. Ecco che Kafka ha vissuto una vita in più, quella stessa vita che ha preteso, giocoforza, una seconda morte, che non fu la sua. E non sarà il solo nella produzione letteraria di Philip Roth. Una sorte simile toccherà ad Hemingway ed Anna Frank. Si può pagare il prezzo del libro “Perché scrivere?” giusto per leggerne il primo breve saggio, diviso in due parti che sono una l’incastro dell’altra. La prima ricavata dalla biografia più o meno fedele del praghese che a sentire Roth, una volta preso coscienza della morte, va incontro all’amore di Dora strappandosi di dosso “il disgusto verso se stesso […] e quell’onnipresente senso di assoluta disperazione che permea le grandi fantasticherie punitive de Il Processo, Nella colonia penale e La metamorfosi.” Franz Kafka sfugge invece ad una morte precoce e diventa un fuggiasco del regime nazista nell’altro racconto. Insegna ebraico alla scuola americana del giovane Roth fino al 1948, continua ad abbandonare, per il terrore che ha di sé, le donne che incrocia nella vita; cosa più importante di tutte, le carte che dissemina in giro sono poche e insignificanti. Non vi è traccia del Processo, del Castello, e neppure dei diari. Non c’è niente che non prenda l’odore dell’oblio, niente che possa lasciarci esterreffatti. Niente di dannatamente e disperatamente kafkiano. Sia mai, chiude Roth, che il personaggio di questa seconda vicenda possa diventare quello della prima: “Perdinci, sarebbe ancora più strano di un uomo che si trasforma in un insetto. Nessuno ci crederebbe, men che meno Kafka.”

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