
“Ho voglia di una carbonara.”
“Sentiamo che ne pensa l’infermiera.”
“Quell’infermiera?”
“Ne hai viste altre nelle ultime due ore?” Mi chiedevo quanto tempo sarebbe trascorso ancora senza che lei reclamasse una pizza con mozzarella di bufala, oppure un piatto di pasta. “Se ti vanno ci sono dei novellini nel cassetto alla tua destra” le feci cenno col dito. Sbuffò mentre le mie palpebre si abbassavano come la saracinesca di un negozio in centro alle otto di sera. Mi tagliò la strada una stanchezza improvvisa che sentii prendermi forte all’altezza degli zigomi. Le lasciai il passo senza opporre resistenza. Rimasi con gli occhi chiusi un quarto d’ora, o forse più. Poi qualcosa, ma non ricordo che cosa, mi risvegliò da quel torpore facendomi saltare in piedi dalla poltrona. Ero rimasto immobile quanto bastava a rimettermi in pista. Lei mi aveva atteso senza urlare il mio nome come da bambina. Non mi avrebbe concesso pause qualche anno addietro. E io non avrei mostrato un’armatura così possente. Mi sentivo in debito. Non so esattamente di quali denari, era così e basta. Per questo mi preparai a ricominciare. Avrei trovato altre favole. Pur di avere in cambio il suo sguardo attento e un interesse curioso di cui si era perso le tracce dal periodo di Winnie the Pooh. I nostri pianeti incrociavano le orbite in una sorta di collisione dolce. E non c’era niente a deviarne la caduta. “Mi dicevi di George, poco fa, il più giovane tra loro. Quale canzone preferisci tra quelle che ha scritto al tempo dei Beatles?” Non avrei mai creduto fino a qualche ora prima che potesse rivolgermi una simile domanda. Era una questione che non la riguardava in nessun modo. La musica aveva sempre fatto parte delle nostre vite e pure a un livello profondo. Senza punti di contatto però. Senza mai avvicinarci quanto bastava anche solo a riaccendere il nostro motore spento. Continuò: “Io ho sempre preferito Here Comes the Sun che ascoltai la prima volta in televisione. Era la colonna sonora di una vecchia pubblicità…”
“Ti ho raccontato di quel tipo che ascoltava i dischi al contrario, cioè partendo dall’ultima canzone?” le chiesi.
“No, non credo.”
“Devi sapere che al tempo del vinile l’ordine delle canzoni sui due lati dei long playing aveva un’importanza capitale. Così ho sempre creduto. Mischiare quell’ordine significava cambiare i termini della storia. Non era sbagliato farlo, certo. Solo che, improvvisamente, dal disco era come se uscisse fuori un racconto differente. Non si trattava solo di musica o canzoni che seguivano una sequenza preordinata. Le ammaccature, i graffi impressi sopra, la testina che saltava sempre allo stesso punto del solo: tutto faceva parte della storia che ti eri scelto. Senza contare che il disco in vinile maturava nel tempo. Era vivo. Suonava levigandosi. Levigandosi si trasformava, poi. Ogni volta dai solchi potevi aspettarti qualcosa di nuovo che non ti avrebbe abbandonato più. Il digitale ha spazzato via tutto questo. Ha imposto un cambio d’epoca. Il compact disc ha messo a tacere una volta per tutte la zozzeria prodotta dal contatto erotico, quasi perverso, tra la puntina e quel corpo piatto e nero, sempre lì a strusciarsi inesausti l’una all’altro fino all’ultimo dei giri.”
“Non ti seguo. Spiegati meglio per favore. Voglio comprendere esattamente quello che mi stai dicendo. Mi interessa molto questa storia del tizio che ascoltava gli album al contrario, partendo dall’ultima traccia. Mi puoi dire dell’altro, ti prego?”
Fu un’altra formidabile improvvisazione. Immaginai un paesaggio inverosimile. Guardavo la neve cadere a fiotti oltre la finestra e me ne andai a caccia di un suo contrappunto. Mi chiesi chi fosse l’uomo che ascoltava i dischi al contrario. E in che anni avesse vissuto. Se avesse mai fatto parte della mia vita. Ne cercai disperato i tratti e le sembianze, e mentre raccontavo di lui a mia figlia in un sussurro di voce che non avrebbe udito nessuno fuori dal mondo che insieme stavamo mettendo in piedi, intento a non spezzare il filo stregato che ci teneva uniti, mi sfiorò l’idea che non fossi io a parlarle di tutto ciò. Credetti, per un attimo, che io non fossi più stato io da quando avevo messo piede in ospedale quel pomeriggio. Fu solo un attimo. Dovetti senz’altro sbagliarmi.
Segue: George