Alabama

Alabama, Barbero, Sellerio editore

Barbero l’ha scritto negli anni. Me lo immagino invece che travasa di getto il suo profluvio (e siamo già dentro l’ossimoro) a Speechnotes per il tramite della voce di Dick Stanton. Magari Barbero, mentre detta, va a sedersi sul dondolo come fa l’uomo in prima di copertina. E la voce di Stanton si scolora senza che ce ne accorgiamo mentre ci vomita addosso il suo racconto. Siamo nel patio di una casa perduta nelle profondità di quell’America che pare non essere mai tornata a galla anche solo per prendersi un respiro dalla pestilenza ed efferatezza razzista che l’annega da sempre. Ma non è colpa degli americani. Che sono il popolo che più di ogni altro al mondo non esiste. Non è colpa dell’uomo insomma, che pure ha un talento spigliato alla barbarie. Del lungo discorso di Dick Stanton, la pagina che più di ogni altra c’inguaia è la 151. Leggere per credere. In quel passaggio, tutto pare saltare in aria. Scompaiono in un sol ragionamento i bianchi e i neri. La luce e il buio. Il bene e il male. Non ci sono più solo e soltanto i contadini del sud, schiavisti pidocchiosi sudici farabutti fino alla stupidità. No, perdio. Ci siamo anche noi, fighetti imboscati da questa parte d’oceano che nuotiamo sulla superficie dello stesso mare dell’America razzista, che ci ripuliamo l’animo immedesimandoci e festeggiando nei secoli col vincitore yankee abolizionista. Il mercante sudista Jack Thorpe, alla pagina 151, pochi giorni prima dello scoppio della guerra secessionista, in uno sfogo ruttato dentro la sua bottega lurida “disse, ma ve l’immaginate, tutti quei negri liberi di andare dove vogliono, a vagabondare per la campagna, a rubare le galline, e magari entrare in casa di qualche donna bianca quando è sola, eh?, e Mitch disse, non finché viviamo, e io dissi, per ridere, magari gli vogliono dare anche il voto, eh?, e potranno diventare governatori, e tutti si misero a ridere, e Jack disse, hanno un bel coraggio, comunque, a protestare per come noialtri trattiamo i negri, che lassù da loro un poveraccio che lavora in fabbrica fatica sotto padrone tal quale un negro, solo che qui quando il negro è troppo vecchio per lavorare il padrone continua a dargli da mangiare lo stesso, lassù invece dice il giornale che li cacciano in strada a crepare come cani, e poi vengono a dire a noi come dobbiamo trattare i negri…”.
Il vecchio Dick Stanton ricorda bene tutto: la guerra, gli amici, i morti in battaglia a riempire intere praterie dello Stato di Alabama o di Virginia. Ricorda alla fine la strage vile ed inutile di cui anch’egli fu protagonista. Il vecchio razzista Dick Stanton è un uomo del suo tempo come lo siamo tutti. Sono trascorsi oltre 150 anni dalla guerra civile vinta dal nord che soppresse la schiavitù nelle piantagioni d’America. L’acqua dei mari e degli oceani nel frattempo s’è alzata per via dello scioglimento artico e pare che arriverà a sommergerci nel volgere di qualche decennio. Lo schiavismo razzista ha prodotto numerose varianti e ha cambiato mille volte pelle, eppure continua a inondarci del suo cattivissimo odore. Segue le onde del disgelo, rosicchia le spiagge, evapora e si spande a folate, e come i peggiori virus muta ad ogni occasione lasciando in giro forme sempre nuove di miseria. L’insulso Jack Thorpe, senza volerlo, dal bancone della sua bottega, nell’anno 1860 sa già tutto. Senza volerlo, Jack Thorpe l’insulso, vede le carte al secolo e mezzo di storia che gli si para innanzi.

Una opinione su "Alabama"

  1. C’inguaia. Proprio così.
    Siamo razzisti più di quanto non ce ne rendiamo conto. L’ ego che diventa “ismo” perché vivere insieme in modo tollerante e fraterno proprio non ci riesce. E l’essere razzisti è nel quotidiano. Gran bella riflessione, a te e ad Alessandro Barbero

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