
Ripesco questo breve resoconto di una sera di un tempo diverso, trascorsa in luoghi che ci chiediamo se esistono ancora.
“Se vuoi berti un ponce vero e non sottrarti alla storia, c’è un nome solo”, dice il mio amico. È una notte appena accennata la nostra. Livorno e il suo centro bisognerebbe provare a respirarli a fondo. Così andiamo. Il Civili è un luogo che non ha niente a che vedere con la moda giovane. Né con la sua versione ultima in questo scorcio di millennio. Qui insomma non arriva l’eco della movida labronica. Il cartello fuori della porta dice che il bar è aperto dal 1929. Poi entri, ti guardi intorno e i volti della gente che riempie le sedie, pensi, sono gli stessi che stavano qua nel 1936, o nel 1981. I volti. Ancor prima dei gesti.
Siamo rimasti troppo poco. O, se preferite, ce ne siamo andati troppo in fretta. Alle volte capita di trovarsi immersi in un liquido di coscienza vaga. Metti a fuoco la vista e respiri un’aria strana, come di un luogo che somiglia a una frontiera. E non sai capire che tipo di frontiera. Quale ne sia cioè l’elemento, se debba calcolarsi in termini di spazio o di tempo. Rimane il fatto che ti senti sul limite di una distanza che si accorcia fino ad annullarsi. Potrebbe trattarsi di un ritorno ad un passato già vissuto che incrocia un futuro che non ci è dato immaginare, proprio in questa linea ombrosa di presente. Potremmo invece stare dall’altra parte del mondo, che so, su una route americana che ci spinge inesorabile sempre più a ovest.
“Uno rosso e quattro neri”, urla l’uomo della cassa al compare che si muove svelto davanti la macchina del caffè sul lato opposto del bancone. Prendiamo il nostro vassoio e ci sediamo. I volti della gente, dicevo. Segnati tutti o quasi da un’età che avanza impietosa e consuma come il sale marino. Mi paiono uomini e donne vecchi solo di facciata però. Bevono, sorridono e in silenzio schiacciano moccoli di cui sono inventori, quando non hanno da schiacciare sui tavoli l’asso di picche o mattoni. Il mio ponce nero è buono al punto da chiamarne un altro. Non si può. È ora di tornare. La fipili è la nostra route con gli autovelox.
Siamo rimasti qua troppo poco.
È un luogo che chiede tempo questo. Che vuol dire sorseggiare piano e parlare adagio. Guardo i colori dei bicchieri di un vassoio che mi sfila a fianco. Non c’è storia fra il nero (autenticamente anarchico mi dico) del ponce livornese e l’altro, il rosso, quasi tenue, che sbiadisce al mandarino.