
John scese i gradini alla fine del corridoio con un velo di scuro dentro agli occhi. Quella parte di occhi che straripava dalle sue lenti rotonde. Gli occhi di John, se ci guardavi attraverso, ti raccontavano quello che lui avrebbe scritto e suonato. Bastava saperlo fare. C’è sempre un’angolazione giusta per guardare gli occhi della gente e scoprire cose taciute, addirittura segreti inconfessabili. Mi salutò con una linguaccia. Era quello il suo modo. Arrivò da solo stavolta. La donna era dovuta andare a Chelsea per il suo lavoro. Da quanto non gli capitava di venire agli studi senza di lei? Aprì la porta e vide che tutti erano sprofondati nel divano di pelle ingiallita. Il giallo era per via del fumo piuttosto che degli anni. Entrai nella stanza subito dietro di lui. Dormivano due di loro, mentre il più giovane coi piedi nudi poggiati sopra uno sgabello di abete grezzo sfogliava un Rolling Stone di quattro mesi prima. Lo sapevo perché anch’io avevo già dato un’occhiata a quella rivista. Il vecchio armeggiava ai volumi e non si dette neanche la briga di alzare la testa. “Sei in ritardo e non abbiamo più molto tempo” disse. Era stanco John a dire il vero. Il ritardo veniva dopo. La fatica circolava mescolata al sangue e una volta raggiunto il cervello grattava via sostanza preziosa. E nella sua testa il tormento si prendeva quel po’ di buono che ancora gli rimaneva da parte. Gli ultimi avanzi di pazienza e sopportazione. I resti di un passato bruciato come l’ossigeno dentro a quella stanza invasa da un fumo millenario. John era in ritardo perché la vita lo chiamava altrove. Quanto puoi resistere a certe condizioni? Non lo sai e nel frattempo stringi i pugni. Faceva questo lui, e poco altro. Scriveva anche canzoni, certo, lo sappiamo bene. E nelle canzoni lasciava da un po’ di anni strisce lunghe e sottili della sua storia. Pezzi di sé, materia che riciclava e trasformava in fibra salubre prima del disfacimento. Era diventato un lavoro duro il suo e ne sentiva il logorio dentro, ogni giorno di più. Allora si rivolse all’amico giovane, quello ancora sveglio ad attenderlo coi piedi nudi sullo sgabello di legno grezzo: “Lascia che m’inventi qualcosa sulla strofa, prima della ripresa con il cantato. Intendo una cosa leggera, simile alla linea principale, che spezzi quel suo vocalizzo che non riesco a mandar giù.” Lo disse indicando Paul che dormiva sdraiato accanto all’amico giovane. Ecco, non gli riusciva più nemmeno la digestione. Lo aveva ammesso e basta. A guardarli bene anche gli occhi non erano gli stessi di una volta. Parevano più piccoli e non si lasciavano scrutare senza che ti cogliesse un disagio strano. In quegli occhi si posò la faccia del giovane amico prima di affondare su un’altra pagina di giornale. Il vecchio staccò di colpo le mani dai tasti dei volumi, strofinò i palmi sopra i pantaloni di gabardina grigia tossendo e sputando fiato dai polmoni. Vidi scomparire le rughe dalla sua fronte dietro uno stirarsi di pelle e nervi, che era come chiedere tregua a chi non poteva concederne più. Il colore dei pantaloni del vecchio aveva invaso l’ambiente da un po’, e nessuno sapeva come sospendere la guerra. Chi sono io a dirvi tutto ciò? Io che guardavo scivolarmi addosso la fine dei giorni trascorsi insieme. Le smorfie non erano più le stesse, e anche certe curvature delle voci, più dei capelli e gli abiti. In fondo quello che doveva accadere accadde e a nessuno sfiorò mai l’idea che si potesse cominciare tutto da capo. Sento ancora oggi il fastidio in gola di quei giorni in cui il secolo – il mio secolo e il vostro secolo – vacillò prima di prendere una direzione nuova. Detti una spolverata in giro, negli angoli e sui tappeti, mi tenni lontana dal bancone dei comandi e dai mixer dove lavorava il vecchio. Intanto tutti e quattro si erano seduti ai loro strumenti e ciascuno aveva provato ad accordare il suo senza troppa pena. Paul cominciò una spola smaniosa tra il piano e l’Höfner, quella specie di grosso violino che portava a tracolla. Ringo fumava e picchiava sul pedale della cassa richiamando gli altri a un contegno di cui non c’era più traccia da settimane, mesi forse. La canzone, ricordo, si chiamava Get Back: “Torna indietro, ragazza, almeno tu” dissi a voce alta, facendo voltare tutti quanti verso di me. Ci fu silenzio per un solo infinito e fottutissimo attimo. George, il ragazzo coi piedi sullo sgabello di abete grezzo, scosse la testa e disse qualcosa. Mi parve di scorgere un lamento sottile nelle sue parole appena biascicate. Paul si alzò dal piano, imbracciò il basso, sollevò l’asta del microfono e dalla sua bocca esplose una risata grassa, mentre John gracchiava in un falsetto stridulo e stonato il motivo della canzone. Paul rise stirandosi il collo, allargò una mano e se la passò sulla testa fino alla nuca. Aveva i capelli sporchi. Anche quello mi parve un segno dei tempi. Lo guardai con un certo fastidio perché per la prima volta ebbi la sensazione che quell’uomo in piedi al suo microfono distante pochi metri dalla mia scopa fosse un perfetto sconosciuto. Una persona diversa da tutto ciò che avevo imparato a conoscere e amare. Sì, perché io li amavo, di un amore tenero, fatto di distanze che si accorciano e allungano, di sguardi complici e ritirate nella steppa; gli sguardi e le ritirate di una madre dopo che ha invaso imprudente i territori maledetti di un figlio ancora acerbo. Li accudivo quei quattro in qualche modo, e intanto mi davo da fare con stracci e ramazze per tener pulito e in ordine il loro nido. Paul si strofinò i capelli, e io colsi quel gesto come un segnale di resa. Fu allora che mi sollevai in un moto di rabbia incontrollato. Urlai che la smettessero subito e che se ne tornassero tutti a casa. Che non c’era una ragione, o meglio, una canzone valida a rimaner lì e continuare a tirarla per le lunghe; rimaner lì e non combinare nulla di nulla, con quei loro strumenti accordati a fatica e con quelle loro voci che erano soltanto voci di merda. Sì, dissi davvero così: voci di merda. Se mai fosse stato possibile, l’attimo, il fottutissimo attimo di silenzio diventò una sequoia lanciata verso un cielo limpido e poderoso. Ero solo una donna delle pulizie. Una ragazza di mezza età. A quel tempo le ragazze di mezza età non esistevano. Si era vecchie giusto per non aver scelto nessun cazzo di uomo da sposare. Io sì invece, sentivo di esistere eccome. E continuavo a esser tremendamente in forma, nonostante avessi doppiato l’età buona a prendermi un marito qualunque. Si voltarono tutti di scatto dalla mia parte. Sollevai il ciuffetto mesciato che portavo sulla fronte, e li guardai in faccia uno a uno. Anche il vecchio, che aveva alzato gli occhi dal bancone dei comandi. Sguainai la spada puntandola dritta verso la più grande rock ’n roll band della storia e tutto il codazzo di figure più o meno inutili presenti in quel momento negli studi. Li tenevo in pugno. Lo sapevo come oggi so che sono una vecchia ragazza rimbambita, alla fine dei suoi giorni, piena di ricordi, malanni e cortisone. Sguainai la spada perché mi ero rotta le palle di vederli in preda ai loro spasmi. I Beatles come una coda di lucertola che continua a strisciare convulsa staccata dal resto del corpo. Non puoi voltare le spalle troppo a lungo a una verità dolorosa ed evidente, e riporre in gola un vomito di speranza. Ringo uscì fuori dal nascondiglio che parava la sua batteria dal resto della sala, mi venne incontro baciandomi sulla guancia. Disse agli altri che ero la cosa più bella con cui avesse avuto a che fare non si sa da quanto tempo, e disse anche che per quel giorno le prove, davvero, potevano considerarsi concluse. Che tornassero tutti quanti a casa, adesso. Lasciai cadere a terra la scopa, accesi una sigaretta e passai il pacchetto a John che aveva allungato una mano senza dire niente. Mi guardai intorno e non vidi il solito scocciatore che girava da sera a mattina per le stanze a fare riprese (non sapevo se per il loro prossimo film o qualche altra cagata simile). Odiavo la cinepresa e il tizio che se la portava sempre in spalla. Forse era il suo giorno di riposo quello e io distesi la bocca quasi in un sorriso al pensiero che nessuno mi avesse registrata. Il vecchio chiese se fosse il caso di rimettersi al lavoro ma nessuno badò alle sue parole. “Ho solo voglia di una pizza…” disse Ringo “… qualcuno può farci arrivare delle pizze? Altrimenti vado in giro a cercarmene una.” Paul si alzò dalla sedia su cui era rimasto seduto fino ad allora, si avvicinò all’amico giovane e disse lui qualcosa nell’orecchio. L’altro scosse la testa e tentò una risposta che non gli uscì fuori. La stanza si svuotò di colpo e qualcuno spense le luci. Rimase il bagliore di una lampadina che illuminava appena gli strumenti abbandonati a terra come fossero dei ferrivecchi. Raccolsi la scopa e mi chiesi se anch’io dovessi andarmene via da lì. Per sempre. Non so perché mi venne in mente una cosa simile. Non so neppure che cosa c’entrassi con tutto quello che avevo intorno, e se fossi sciocca al punto di sentirmi parte della loro vita. Meglio, della loro storia. Tirai le ultime boccate dalla sigaretta e spensi il mozzicone dentro a uno di quei posacenere col piedistallo. Si rovesciò il posacenere, le cicche e la polvere finirono ovunque. Imprecai a voce alta, aprii un grosso sacco dell’immondizia e cominciai a raccogliere lo sporco. Poi sentii scendere di nuovo un silenzio profondo che si stese a tappeto nella stanza. Avrei giurato che fosse il silenzio peggiore, quello che nasce da dentro e si allarga alle cose che ci circondano, il silenzio che si mangia anche pezzi della nostra anima. Il silenzio della morte insomma. Una mano sottile si posò sulla mia e mi aiutò a raccogliere gli ultimi avanzi di sigarette sparpagliati sul pavimento. Non alzai lo sguardo perché ebbi paura. Ebbi paura di non riuscire a vedere più niente di ciò che avevo visto fino a pochi istanti prima. La cenere si levò in alto posandosi più distante per via di un refolo d’aria che entrava da una finestra aperta, la luce diventò ancora più debole e la mano sconosciuta abbandonò la sua presa. Chiusi gli occhi e dal silenzio della morte ascoltai un suono leggero di chitarra acustica. Conoscevo – e conosco ancora oggi – le loro canzoni a memoria. Avevo perfino il pregio di una voce intonata seppure con un’estensione da schifo. Il giro di note non mi lasciò scampo, si confuse al mio silenzio fino a sovrastarlo col potere della sua delicatezza, come un vento leggero che spazza le ultime foglie d’autunno su una strada deserta. Mi sedetti a terra e non seppi più dove mi trovavo, e chi se ne stava vicino a me a suonare e tenermi compagnia. Accennai le prime parole della canzone e fu come infilarmi nuda dentro al mio letto caldo in una notte gelata. Compressi il corpo attorno all’ombelico, immaginai di diventare piccola come un feto che si rannicchia nel corpo materno. “Is there anybody going to listen to my story all about the girl who came to stay…” Cantavo, e il suono della chitarra vicino a me fece lingua in bocca con le mie parole. Fu così che ricacciai indietro la mia paura di sempre: svanire in mezzo agli uomini senza che costoro si dessero neppure la briga di accorgersene. Io svanivo in mezzo agli uomini e da una vita intera gli uomini non venivano mai a salvarmi. Il suono di quella chitarra e colui che la imbracciò senza mostrare il suo volto mi salvarono. E fu la prima volta che questo capitava da quando ero nata. Nessuno accese le luci alla fine della mia canzone e nel buio indossai cappotto, sciarpa e cappello che tenevo appesi in un bugigattolo adiacente alla sala di registrazione. Non stavo bene, cominciarono a tremarmi mani e braccia. Sopra un tavolo nella stanza d’ingresso degli studi c’era sempre un thermos con caffè caldo e delle tazze vuote a disposizione per chiunque ne avesse voglia. Me ne versai un bel po’ e provai a berne quanto più potevo. La tazza oscillò dalle mie mani a destra e a sinistra prima di infrangersi sul pavimento. Il caffè bollente cadde sul bavero del mio cappotto, colò sotto la camicetta fino a scottarmi petto e stomaco. Gli schizzi macchiarono gonna e scarpe. Ebbi uno scatto nervoso. Mi sfilai tutto quanto di dosso in tre mosse rapide, tolsi le scarpe e le scaraventai più lontano possibile. Qualcuno venne in mio aiuto pronunciando parole che non compresi e posandomi una giacca scura sulle spalle nude. Io volevo solo uscire da lì, subito. Provarono a trattenermi senza riuscirci. Piangendo cercai le mie sigarette nella tasca del cappotto che avevo buttato a terra. Ne accesi una e infilai la porta d’uscita. Ero scalza e senza gonna, solo con una cicca tra le mani e una giacca da uomo poggiata sulle spalle che mi copriva le gambe poco oltre le ginocchia. Attraversai le strisce pedonali davanti agli studi di Abbey road, corsi verso la mia auto dalla parte opposta della strada, maledissi Dio che avrebbe dovuto farmi morire stecchita in quell’istante senza dover attendere altre inutili giornate dentro a un mondo schifoso che lui stesso aveva inventato anche per me. Maledissi Dio e intanto staccavo la multa dal parabrezza. Parcheggiavo il maggiolino a ridosso del marciapiede quando ero in ritardo al lavoro. E quelle stronze di guardie non me lo perdonavano mai. Guidai nella città incasinata senza sapere dove, continuai a piangere fino a che gli occhi non cominciarono a chiudersi. Provai a rimanere sveglia, poi mi fermai da qualche parte al lato della strada cercando tracce dell’altro mio silenzio, quello buono, ristoratore, che mi rimettesse in piedi per il resto della notte; il silenzio che un giorno mi avrebbe spalancato una via di accesso verso tempi nuovi e sconosciuti che la smettessero di torturarmi e di prendersi la mia vita tutta intera, senza offrirmi in cambio un solo cenno a un’idea illusoria di autentica libertà.
continua: Intermezzo sette