
Non avevo bevuto nulla tranne un bicchiere d’acqua da una bottiglia d’ospedale che un’infermiera buona, con due tette grosse così, ci aveva procurato dietro nostra richiesta. Ero ubriaco però delle mie stesse parole. Avrei voluto distendermi e non parlare più negli anni a venire. Costringermi alla prova del silenzio come facevo a messa da bambino. Mi disse che era una favola bellissima e io lessi nei suoi occhi una gioia che non avevo mai conosciuto prima. Guardai l’ora. L’una e venti. Si era alzata a sedere chiedendomi di ruotare la manovella ai piedi del letto. Pensai che fosse fortunata ad avere una spalliera reclinabile tutta per sé. Qualcuno camminò avanti e indietro nel corridoio, ce ne rimanemmo a guardare la porta per un po’. Respirai tutta l’aria della stanza, le carezzai una mano chiedendomi quando lo avessi fatto l’ultima volta. Misurai la febbre dal suo orecchio e fui contento di vedere che si era abbassata ancora. Trentasette e quattro. “Potremmo organizzare una festa a questo punto della notte, sei una donna guarita, grazie al cielo.” Era stanca in verità e non ribatté alle mie parole, neppure con l’abbozzo di un sorriso. Mi avvicinai alla finestra, fui sorpreso da quello che vidi. Gli alberi si erano già irrobustiti di bianco e l’asfalto cominciava a nascondersi sotto la prima patina. Incrociai le braccia sul petto e sospirai lasciando impressa nel vetro una macchia di vapore. Non abbiamo confidenza con la neve noi altri, la consideriamo un corpo estraneo. Ci difendiamo da lei con affanno. “Chissà se tua madre starà dormendo in questo momento. Magari è seduta in camera davanti al suo portatile perché deve terminare una di quelle sue analisi o relazioni.”
“Chissà. Spero solo che non ci sia nessuno con lei a chiederle di raccontare belle favole.”
Conoscevo lo stile delle sue provocazioni e provai a tenere il passo: “Spero anch’io non sia costretta a inventarsi mirabolanti storie sui Beatles. Farebbe una pessima figura.”
Ridemmo ad alta voce stavolta e la nostra infermiera si affacciò alla porta con la faccia di un Torquemada stanco. Mi sistemai sulla poltrona a immaginare di chiudere gli occhi sopra a una spalliera reclinata all’indietro. Non impiegò molto tempo a tornare alla carica: “Ho voglia di un’altra delle tue favole. Te la stai cavando bene devo dire, e non posso accontentarmi a quest’ora della notte. È ancora presto, che dici? Oppure credi che sarebbe davvero il caso di metterci a dormire?” Mi salì di colpo alla mente che il meccanismo di ribaltamento della mia spalliera potesse trovarsi sotto a uno dei braccioli. Lo cercai invano prima di incrociare un’altra volta il suo viso immobile. “Ti ho mai raccontato di quando ce ne andammo a Liverpool, io e tua madre, una ventina di anni fa, nei giorni in cui quel dolore ai piedi che nessuno sapeva curarmi era diventato per me un inferno? Mi convinsi che sarei morto in breve tempo. Il dolore cresceva inesorabile da qualche mese e il freddo, quello che piace a me, ancora non si faceva sentire nelle nostre zone, così le chiesi di accompagnarmi in quel viaggio che avrei dovuto compiere da un pezzo e che avevo sempre rimandato. Le chiesi di accompagnarmi là prima che fosse troppo tardi. Sentivo l’urgenza di andarmene a spasso e sbattere le suole sulle strade e nei locali al chiuso di quella città, che ho sempre immaginato di una provincia povera ai margini dell’Inghilterra e non solo; e proprio per questo ribelle fino alla rapacità. Qualche giorno dopo il nostro arrivo, guarda strano, lei se ne era rimasta in camera d’albergo tutto il tempo, davanti a uno dei suoi PowerPoint a cui non aveva concesso tregua dalla notte precedente. Io vagabondai da solo, senza mete, dalle parti di Penny Lane e del vecchio Cavern, limitandomi a scrutarlo dall’esterno. Mi stancai alla fine ed ebbi solo voglia di sedermi e bere qualcosa di buono.”
Non disse niente. Gli occhi fissi su di me. Lessi il terrore nel suo viso. Raddrizzò sul naso il respiratore che si era storto di lato fino a uscire fuori dalle narici, tirò in alto la coperta a coprire le spalle e attese solo che ricominciassi con un nuovo racconto.
segue: La domanda sospesa