
Il titolo mi ha tradito. Ho creduto scioccamente fino alla riga di chiusura che ‘mancarsi’ fosse un destino a venire, ciò che sta oltre l’epilogo, il bianco che prende corpo e di cui si riempiono le pagine dopo l’ultima. Questa in verità è la storia ordinaria e sublime di un incontro che la vita in un rigurgito d’improvvisata destrezza escogita a seguito di tanti, troppi giri inutili che la costringono ad un misero avvitamento su se stessa. ‘Mancarsi’ è tutto ciò che avviene prima di quell’incontro; aver vissuto di sbieco nell’incapacità di mettersi a fuoco, un traccheggiamento di cui doversi liberare prima o poi; ‘mancarsi’ è una forma riflessiva di verbo che dunque può essere rivolto solo a noi stessi.
Diego De Silva, forse grazie al nome che si porta appresso, nasconde la palla, fa il giocoliere, procura falsi presentimenti. Sta in alto sulla storia e la tiene in piedi con frasi che sono lanci illuminanti e in profondità; pennella giocate al limite della sfacciataggine, dispensa stati d’animo che pretende universali e che invadono certe zone di campo che noi lettori difendiamo fino al fallo da ultimo uomo. In fondo ha ragione l’autore: la scrittura è tutto fuorché reticenza. “È per via di questa reticenza che quando ritroviamo i nostri pensieri nei libri, sembra che ce li tolgano di bocca con tutte le parole. Allora li rivalutiamo. Ci viene voglia di riprenderceli, di difenderli. In un certo senso, cominciamo a parlare. Uno scrittore, sta pensando adesso Nicola, fa quello che ha appena fatto Pavel.” Che cosa ha fatto davvero Pavel e che cosa fanno gli scrittori? Nulla, tranne gesti di poco conto che però non passano inosservati perché riempiti della dose giusta di verità e coraggio.
Ho ritrovato questo piccolo libro nascosto sotto il peso di Guerra e pace ai lati della mensola lunga nel nostro soggiorno. Mi è tornato alla mente il momento in cui mia moglie qualche anno addietro lo teneva tra le mani mentre le chiedevo cosa stesse leggendo. Era seduta al tavolo e voltandosi mi mostrò la copertina. Rispose con una domanda: “Conosci Diego De Silva? Ci sa fare. Merita di esser letto questo breve e intenso racconto. Te lo consiglio.” Raccolsi il libro dalle sue mani, rimasi a guardarlo per un secondo o due e risposi che sì, lo avrei letto prima o poi.
“Non è mio. O meglio, non è nostro, me lo ha prestato un collega, e devo restituirlo al più presto.”
“Ok, lo leggerò nei prossimi giorni allora.”
Poggiai il volumetto sopra la mensola e di lui si sono perse le tracce per lungo tempo, fino a spuntare fuori dal nulla in una di queste serate con cenni lievi di pioggia e freddo, di un inverno timido, quasi a metà.
Irene e Nicola esistono in due universi vicini e paralleli. Lei “ha ricominciato a prendere la vita sul serio” dopo la separazione dal marito. Lui sperimenta a tentoni il dilatarsi del tempo e della libertà e fa l’inventario delle cose sbagliate che lo tenevano stretto a sua moglie prima che l’incidente se la portasse via insieme alla loro storia adattata. Buster Keaton, sullo sfondo di un locale del centro, è la figura ignara che salverà entrambi dalle loro vite precedenti, prioettandoli, chissà, in quel punto all’infinito, unico tra suoi infinti simili, pronto ad accoglierli in un’intersezione miracolosa di universi paralleli.
Ho chiuso il libro nell’istante in cui mia moglie è comparsa in soggiorno chiedendomi sorpresa dove lo avessi ritrovato. Ho sorriso al suo volto che scopro ogni volta dolcissimo, le ho risposto pregandola di riconsegnare al collega le sue pagine appena le fosse stato possibile. L’ho abbracciata guardando la parete di fronte, immaginando quali e quante vicende taciute mi hanno attraversato senza che me accorgessi. Non ho scorto l’ombra di un Buster Keaton triste in mezzo alle foto e tutte le altre immagini a riempire la nostra parete. Allora sì che ho potuto chiudere gli occhi lasciando che si consumasse piano la mia stretta.