Le favole di Rubber soul. Intermezzo sette

“Babbo, tu hai fatto sempre una fatica bestia a sintonizzarti sulle mie note. Parlo di musica, e non solo. Detestavi la trap ad esempio, e tutte le sue varianti. Si detesta sempre ciò che ci appare distante, è uno dei modi di evitare il duro confronto con la trasformazione dei tempi a cui accennavi proprio in questa tua ultima storia. Un confronto che spesso diventa scontro silente e porta scompiglio, e alle volte tempesta dentro le case, mentre vorremmo, come no, starcene tutti quanti comodi e tranquilli a leggerci un libro sulla Rivoluzione d’ottobre o guardarci la finale di Champions con il culo che affonda nella poltrona comoda del nostro soggiorno. Perché a un certo istante della vita, d’improvviso, svanisce l’incantesimo, e quello tra padre e figlia diventa un duello impazzito tra esseri che appartengono a realtà che non hanno più niente in comune. La tua colpa, babbo, nasceva da una presunzione sotterranea che alle volte non riuscivi in nessun modo a tenere a bada. Aggiungi pure una buona dose di pigrizia di spirito che non ti ha quasi mai permesso di schiodarti dal tuo mondo chiuso. Niente fughe in avanti. Mai. Ti ho osservato io, l’ho fatto di nascosto. Come il tuo giovane di Leningrado ha osservato suo padre. Non ti ho mai odiato però, anche se ti ho scorto sempre e soltanto con la faccia rivolta all’indietro, ed era insopportabile per me. Se ce ne fosse offerta sul serio l’occasione, dovremmo chiudere gli occhi e lasciarci trascinare via da una grande estasi, al punto di confondere gli attimi del nostro stare su questa terra. Confondere gli attimi vuol dire perdere il senso del passato e del presente senza credere di avere dinnanzi un futuro in qualche modo esperibile, anche solo per approssimazione. Ridurre tutto lo spazio e il tempo ai minimi di un racconto, e guardarci attraverso con quel che resta di noi e delle nostre pulsioni vive. Allora, ti dico, saremmo ben in grado di godere dei Beatles e di qualunque altro cazzone di turno. E pure di Socrate, e Anna Frank. Malatesta e Pavese. E saremmo in grado così di contemplare a freddo tutto ciò che loro incarnano ancora oggi. Tu, babbo, non hai chiuso gli occhi mai da quando sono nata, per la smania maledetta di perdere il mio passo; per il timore bruto che mi rendessi simile a te. E, sempre tu, hai avuto orrore di te medesimo. Mi era evidente ciò. Fino alla noia. Mi dicevi parole puntualmente smentite dai fatti. Ti comportavi come non avresti dovuto. Debole e lucido. Oppure forte e confuso. Ho preteso sempre molto io: che tu fossi esempio cristallino di vigore e coraggio delle scelte. Hai nascosto te stesso al mondo invece, e Dio solo sa se il mondo aveva bisogno di te. Hai nascosto te stesso a me, e Dio solo sa se io avevo bisogno di te. Avevamo entrambi bisogno di ciò che non hai mostrato. E nemmeno raccontato. Avevamo bisogno di restare vicini in una sera di luna tenue e voci soffuse intorno a noi. Dentro a un bar, al ristorante. Nel nostro soggiorno. D’estate, in un bagno a mare oltre la boa. Avevamo bisogno entrambi. E non c’è stata mai occasione. A un tratto, nelle nostre vite, non c’è stata più un’occasione per noi.”

Ascoltai il suo parlare duro. Sembrava che un direttore d’orchestra le dettasse il tempo in quel suo intercedere serrato di parole strette fra i denti e già piene di azoto prima che diventassero libero sfogo appena fuori dalla bocca. Ero vecchio per potermi stupire anche solo un poco così. Non sapevo niente di ciò che mi stava dicendo eppure non ne ero all’oscuro. Mi illusi, una volta che si era lasciata andare al silenzio, di aver compreso il significato del suo discorso. Non avevo terminato il mio pensiero che già ero sul punto di ricredermi e stupirmi. Stupirmi di quanto fossi coglione, di quanto lo fossi stato in tutti gli anni passati a non cercarla, ovunque si nascondesse da me. Coglione, sì, e ignaro. Mi chiesi quando avessi cominciato a sbagliare con lei. Quale fosse l’origine del mio peccato. Mi chiesi allora come avevo fatto a non essermi reso conto della morte. Sbagliavo di nuovo. Non c’entrava la morte. Ebbi giusto il tempo di un respiro prima di togliermi gli occhiali, vedere il suo volto confondersi con l’azzurro del cuscino e raccontarle la mia ultima favola di Rubber Soul (e dei suoi immaginari dintorni).

segue: Legno norvegese

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