Le favole di Rubber Soul. Intermezzo sei

Avevo una voglia tremenda di sdraiarmi o soltanto provare ad allungar le gambe in orizzontale. Mangiai qualche biscotto dalla busta sul comodino, bevvi due grossi bicchieri d’acqua e guardai la neve fuori che aveva coperto i tetti e gli alberi. La strada era muta, i lampioni spargevano sul bianco della terra una luce giallastra, l’effetto era quello di una foto che perde i colori col passare degli anni. Un uomo ‒ giovane evidentemente ‒ con un cappuccio in testa e jeans bassi in vita portati con eccessivo sbraco camminava a zig zag spostandosi da un marciapiede all’altro. Mi chiesi se per via del freddo o di qualche rimesto chimico nel casino del suo cervello. Si fermò in mezzo alla strada, armeggiò un po’ alla patta dei calzoni e cominciò a pisciare per terra. Pisciava muovendosi come impazzito in tutte le direzioni. Poi si ricompose e prese di nuovo a camminare storto fra un lato della strada e l’altro. “Goldrake esiste.” Non aveva lasciato nemmeno il punto sulla i. Distinguevo nitida la scritta che il calore del suo liquido aveva impresso nella neve. Sollevai l’avvolgibile perché anche lei potesse assistere al paesaggio che si stava trasformando rapido di fronte a noi. Uscii dalla stanza, me ne andai avanti e indietro lungo il corridoio del reparto alla ricerca di una sedia che trovai dentro a un ripostiglio qualche metro in là dalla nostra camera. La sistemai a un metro dalla poltrona, mi sedetti e allungai le gambe. Un nuovo tentativo di abbassare la spalliera non mi portò a nulla. Erano le quattro e venti del mattino e stavo cominciando ad abituarmi all’idea che non sarei più riuscito a prendere sonno. Aveva gli occhi vigili che mi seguivano a ogni passo che muovevo. Era una specie di fame bulimica la sua, da carbonara forse, e da storie che non le avevo mai raccontato prima. E sapevo che non era giunta ancora a sazietà. Ci rilassammo per qualche minuto, solo in apparenza però, perché mi costringeva a mantenere alta la guardia. Teneva stretta in mano la cima del nostro filo, ce l’aveva scritto in faccia che avrebbe ripreso presto a pungolarmi. “Abbey Road” lo disse senza aggiungere nulla. Io la fissai e attesi l’affondo. “Abbey Road chiuse la loro storia”, fu quasi una sentenza la sua.

“Abbey Road. Qualcuno crede che la loro storia fosse già chiusa da un pezzo quando lo realizzarono negli studi di Londra. Comunque se mi stai dicendo che quell’album fu la loro ultima registrazione, ebbene sì, hai ragione.”

“Ho in mente la copertina. E non credo certo alle sciocche storie sugli indizi che vorrebbero svelare al mondo la morte di Paul. Penso più a un altro genere di simbologia. Loro mi appaiono come quattro entità nettamente distinte oramai, mentre attraversano la strada che forse è il limite stesso del loro tempo. Gli abiti, le espressioni, il passo, perfino uno sfondo che non ha più niente o quasi dei Sixties quasi al tramonto: tutto lascia presagire che non ci sarà modo di tornare indietro, attraversare ancora la strada, in senso contrario, su quelle stesse strisce.”

Non sapevo più dove trovare le mie storie, ritrassi la testa e schiarii la voce prima che mi abbandonasse per sempre, lì, dentro una stanza d’ospedale, nel mezzo a una notte di neve e parole che rimanevano appese in aria insieme all’odore di candeggina e acqua ossigenata.

continua: Abbey Road

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