Racconti dentro a una scatola (8)

Quante ore erano trascorse? Mi posi la domanda credendo di riferirmi al tempo che avevo passato con il quaderno marrone tra le mani sulla poltrona a casa di mia madre. Non seppi darmi una risposta. Allora pensai a Carlos, l’amico che forse un giorno sarebbe diventato intollerante ai miei cliché. Cogliendo un’occasione improvvisa, quasi un’illuminazione a tradimento, lo immaginai come un uomo sulla cinquantina che mi diceva: “La questio non è né il passato né il futuro, peraltro il tempo nella mente non esiste.” E perché Carlos avrebbe dovuto pronunciare queste parole? mi chiederete. Per avergli io spedito in qualche modo una foto di Stefan Edberg sul prato di Wimbledon, quando Stefan Edberg sarebbe stato oramai vecchio e imbolsito, magari già bell’e morto: non so come, pensai, forse un giorno spediremo foto che si potranno vedere immediatamente sullo schermo del nostro televisore, o in qualche altro diavolo di marchingegno che ci saremo inventati, magari dentro una specie di telefono portatile; o forse spediremo foto semplicemente con la forza del pensiero. Lui, il mio amico Carlos, guardando l’immagine del giovane Edberg in quella sua volee di un rovescio sublime e inarrivabile, mi avrebbe chiesto – sempre per il tramite del telefono portatile ché ci si potrà anche scrivere attraverso -, dall’alto della sua conclamata riluttanza a perdonare le mie solite divagazioni sciocche ma innocue: “Bei ricordi. Ma cos’è tutto questo vintage sportivo che si muove nella tua testa?”

Ed io a rispondergli: “Hai detto bene. Io sono vintage dentro. Non solo un vintage sportivo. Lo sport resta comunque una vecchia passione.”

E ancora lui: “Ma che vor’ di’ vintage dentro?”

“Mi appassiona più quel che è stato piuttosto di quel che sarà.”

“Ma non è che eri vintage anche da piccino?”

“Di certo. Sempre stato!”

“Allora dé!”

Ecco che a questo punto esatto della nostra chiaccherata per il tramite del telefono (o di qualche altro marchingegno, o forse solo con la forza del pensiero) lui mi avrebbe detto quella cosa sul tempo che non esiste. Non avrei saputo alla fine se dargli retta o curvare secco tagliando la strada al suo sospetto ragionare di analista. Perché Carlos un giorno sarebbe diventato con ogni probabilità un analista illuminato. Non seppi immaginarmi se junghiano o freudiano semplicemente perché ne ignoravo il significato e dunque la differenza. Ad ogni buon conto non pensavo fossero troppo vicini i giorni in cui avremmo potuto scrivere i pensieri e spedire foto da un telefono portatile.

Tornai dunque a sfogliare le pagine del quaderno per leggere un altro racconto che portava il nome (o quasi) di un giocatore brasiliano campione in Svezia con il Brasile del giovane Pelè.

Una strana frase proprio sopra al titolo diceva: “vincitore a pari merito del premio orme gialle, in uno degli anni a venire”.

Garrincia

LA NAZIONE      25 SETTEMBRE 1986

Suicida famoso notaio della Valdera

Il fatto è accaduto questa notte nella stessa casa del noto professionista. Il cadavere sarebbe stato ritrovato immerso nella vasca da bagno, ma al momento rimangono oscure le circostanze che hanno spinto l’uomo al disperato gesto…

Via delle colline 24 settembre 1986

Si arrampicò sulla rete e con un salto fu di là.

Di là c’era il campo brullo ed incolto, un tempo teatro delle sue più grandi battaglie. Si aiutava col bastone Garrincia, perché la gamba corta ormai lo reggeva a stento, e anche la forza dei vent’anni lo aveva salutato. Da un pezzo. Ogni volta che arrivava alla rete lanciava il legno, e solo dopo averlo visto cadere dall’altra parte nella sterpaglia, si tirava su con le braccia un po’ raggrinzite. E con lo slancio dei reni faceva leva sulla gamba lunga. Poi si catapultava contro il terreno da un metro e mezzo, forse due, raccoglieva il bacchio, e si sentiva come se fosse già a casa. Quell’ultimo ostacolo sulla strada del ritorno lo temeva – a metà però – come si teme il tradimento di un amico di cui sospetti e basta. Pareva messo lì apposta da qualcuno, soltanto per costringerlo a compiere il giro lungo. Allo stesso tempo però scavalcare la rete con la fatica che i suoi malanni gli imponevano lo tirava dentro alla vita. La la vita dei cani randagi. La vita degli avventurieri cenciosi. Quella specie di vita che ogni tanto ti si appiccica addosso e ti sussurra piano: “Ehi ci sono, qui accanto a te, e non ti mollo, anzi ho pronta un’altra puntura a spillo, stai in guardia.” Lui ci sorrideva su, fino quasi a goderne.

Anche in quella tarda serata di fine settembre andò così. Garrincia raccolse il bastone e oltrepassò il campo.

Se ne accorse subito. Avrebbe scommesso qualunque cosa, ne era sicuro al punto da non voler neanche guardare. Era l’odore. Conosceva quell’odore di morte, carne sanguinolenta che giace inerme in un lago immobile di fango e terra. Sporgendosi dentro la buca che tanti anni prima aveva scavato fonda insieme a Bugatto Marmitta e Bistecca – il fronte d’attacco dei Diavoli azzurri – per farne una specie di spogliatoio e che un ammasso di rovi ed erbacce aveva con il tempo tappezzato quasi per intero, ne ebbe la prova: un corpo quasi nudo di donna – quella bellissima donna – era stato gettato là in fondo da un barbaro qualunque. Raggiunse la sua casa, lontana duecento metri in direzione del circolo tennistico, e cominciò a riflettere su quello che aveva visto e fino a che punto ciò avrebbe potuto cambiare la sua vita.

Garrincia.

Garrincha era l’ala del Brasile del cinquattonto, il Brasile di Didì-vavà-pelè-zagalo, il tornante tutto estro e fantasia che con quel suo ancheggiare ondulato e farsesco sbeffeggiava l’avversario, superandolo in mezzo a un fumo di finte e giochi di gambe. L’unica certezza era la palla, che continuava a rimanere attaccata al suo piede, al di là del fumo e di ogni ragionevole dubbio.

Così Garrincha diventò Garrincia. Per via di una gamba più corta di quattro centimetri e un controllo di palla da fare invidia al mondo. Se lo conquistò sul campo, o meglio sulla fascia destra, il suo nome d’arte, e furono i grandi a chiamarlo così, quelli che andavano a vederlo giocare ed a urlagli dai bordi del rettangolo come scartare tirare passare. Un giorno al campo sull’argine ci andò anche un tizio con un cappello a tesa larga e parlò col padre di Garrincia. Chiese la sua disponibilità per un provino in una grande squadra del nord. Il tizio col cappello portò iella, eccome se la portò. La famiglia di Garrincia si squagliò in una notte poco tempo dopo. L’uomo, tramviere di servizio alla stazione di Pisa, fu schiacciato da un locomotore in movimento e un cretino di poliziotto accompagnò il figlio e la moglie sul luogo che ancora non avevano rimosso il corpo. L’odore di morte. Da quel giorno gli era rimasto dentro. La povera donna non resistette allo strazio e morì anche lei poco dopo. Uno zio venne a prendersi da lontano quel che rimaneva della famiglia, compreso il giovanetto. Di Garrincia si persero le tracce per lungo tempo. Non si seppe più nulla fino a quando non ricomparve in paese che aveva diciassette anni, presentandosi alla stazione dei carabinieri con una valigia rotta e due scarpe lise. Non parlava, con pochi cenni del capo e delle mani si impose all’attenzione del maresciallo che gli fece portare una brioche e un caffellatte. Il ragazzo mangiò e bevve tutto quanto sgranando gli occhi come per ringraziare.

“Giovanotto, adesso che ti ho rifocillato devi raccontarmi chi sei e da dove vieni” gli disse il carabiniere.

Non parlava Garrincia, non parlava proprio. Tirò fuori dalla tasca del giubbetto d’incerato un pezzo di carta piegato in due e glielo porse.

Mi chiamo Alessio Boni, ho appena compiuto diciassette anni e non posso parlare. Un vecchio problema alle corde vocali me lo impedisce. Sono tornato in paese perché mio zio, che in seguito alla morte di mio padre e mia madre – Giancarlo e Guelfa Boni – mi adottò portandomi con sé a Grosseto, è anch’egli deceduto. Non ho più nessun parente e non ho nessun posto dove andare al di fuori del mio vecchio paese. So per certo che la casa dei miei poveri genitori c’è ancora ed è proprio lì che vorrei vivere. Gli incartamenti che attestano la mia proprietà sull’abitazione li ho con me; sono qui appunto per mostrarglieli. Spero che tutto questo non provochi fastidi e imbarazzi agli abitanti e a lei.

“Cosa vuol dire questo? Chi ti ha scritto queste cose? Come sarebbe che sei proprietario di una casa…e poi quale casa?! E chi era questo Giancarlo Boni? Ho già sentito questo nome! Appuntato Guarusco! Venga qua subito!”

Guarusco comparve sulla porta mentre il giovane stava facendo a pezzi un blocco di fogli sulla scrivania del maresciallo. I due carabinieri rimasero stupiti, in silenzio, a guardarlo. Garrincia scrisse sul primo brandello di carta: temevo fosse una questione difficile da affrontare e temo sarà ancora più difficile risolverla. Capisco la sua incredulità, ma sto dicendo il vero e le prove sono lì, dentro la mia valigia. A proposito maresciallo, nessuno mi ha dettato quelle poche righe che le ho fatto leggere. Le ho scritte da solo e non bisogna essere certo letterati illustri per farlo. Mi sono semplicemente diplomato al Liceo classico “Dante Alighieri”  di Grosseto con un anno di anticipo e ho sempre avuto ottimi voti in italiano. Sono pronto a discutere con lei tutta la notte se necessario.

Guarusco tuonò secco quando riconobbe il ragazzo che aveva di fronte, fulminato dal ricordo della tragedia che lo aveva colpito qualche anno addietro: “Cazzo, ero piccolo, ma ho ancora tutto a mente! Alessio Boni, detto Garrincia! Figlio del ferroviere morto in stazione. Abbiamo giocato pure contro, tu con i tuoi Diavoli azzurri, io con la piccola juve. Ma non a quel vostro campo scalcinato in golena, ma al campone, quello vero, con le porte di ferro. Vinceste voi altri, due a uno. Goal di…”

“Guarusco…” lo interruppe il maresciallo “…che minchia me ne fotte delle tue partite di giocatore fallito! Finiscila qua e vai subito a chiamare quel cornuto del notaio Brunelli.”

L’appuntato sparì biascicando alcune parole incomprensibili e Garrincia per un attimo sentì di non essere più solo. Fece un respiro profondo. Un tremito lo avvolse alle gambe, a tradimento quasi.

Il notaio Brunelli aveva l’ufficio proprio accanto alla caserma. Arrivò una ventina di minuti più tardi, cupo in volto, nella stanza del maresciallo, e ascoltato un breve resoconto dei fatti, lesse le carte del ragazzo sparpagliate sul tavolo. Sciolse alla svelta tutti i nodi, anticipando in tono chiaro e deciso l’autenticità di quei documenti. Un accurato controllo dei registri catastali e comunali, svolti nel giro di qualche ora dal pubblico ufficiale in persona, pose fine alla questione.

“Maresciallo…”, disse stanco alla fine della giornata il giovane notaio, con le spalle appoggiate al portone d’ingresso della caserma, “…il mio dovere per aiutare questo ragazzo a prendere possesso della sua vecchia casa l’ho fatto. Le consiglio di accompagnarlo là e di chiedere a qualcuno una mano per una sana e profonda ripulita. Quel posto è in condizioni pietose. Ci sono passato questa mattina…possiamo considerarci fortunati però, perché il tetto mi è parso a posto, così come i muri esterni. E la cosa più importante rimane il fatto che nessuno in questi anni vi abbia abitato, più o meno legittimamente. Non sarebbe stato facile in ogni caso allontanarlo. Comunque, qualche serramento dovrà essere risistemato, ma niente di eccessivamente oneroso. Può sentire Carpo, il falegname di via Verdi, uomo di buona volontà. Per gli allacciamenti della luce e dell’acqua ho già fatto compilare le opportune domande. Sono certo che nel giro di due o tre giorni sarà tutto a posto.”

“Anche i cornuti – e d’altra parte sarebbe difficile non esserlo con una moglie giovane, bella e vogliosa come la sua – possono essere brave persone…” pensò il maresciallo mentre Garrincia, serio e immobile di fronte ai due uomini, continuò a guardarsi attorno dal fondo del suo fortino di silenzio inattacabile.

Si preparò un panino, solo col burro, evitando di proposito carne e affettati, imbracciò una sedia andando a sedersi di fronte alla finestra. La campagna intorno alla casa era cambiata molto col trascorrere dei lustri, ma per il quarantenne Garrincia, alla metà degli ottanta, le prospettive, al di qua del sottopassaggio, sulla via delle colline, continuavano a rimanere le stesse: l’ampia curva del fiume prima di incontrare il paese, l’argine che si allargava su decine di orti sparsi e ben curati, il grande spiazzo del vecchio campo sportivo, il ponte di ferro che faceva tremare i primi isolati del quartiere al passaggio del treno. Oltre il fiume invece, la città era cambiata: il campanile non la faceva più da padrone come una volta, i tetti ora si accavallavano senza colore e senza verso e le antenne avevano rosicato spicchi di cielo sempre più alti. I rumori poi. I rumori, che durante gli anni d’oro il vento aveva spinto dalle officine Piaggio, si erano affievoliti parecchio, e con i rumori erano diminuiti gli operai nelle catene di montaggio. Anche lui aveva dovuto andarsene. Cassa integrazione gli avevano detto. “Vedrai, quando ricominceranno in pieno le attività ti riprendiamo.” Trascorsero due mesi, poi quattro e poi sei. Alla fine vennero i licenziamenti. Garrincia non tornò più, e non lo cercò nemmeno un nuovo lavoro. I pochi risparmi, la pensione di invalidità, e il vecchio vitalizio che puntualmente le Ferrovie gli passavano dalla morte del padre sarebbero in qualche modo bastati. E bastarono.

Visse da emarginato. La perdita del lavoro non lo allontanò ancora di più dal mondo solo perché era già troppo distante. Aveva reagito al dolore con l’isolamento e aveva imparato a disprezzare e basta. E quello strano modo di non parlare, vivere la vita dentro ad un incrollabile mutismo, fu la sua corazza contro tutti e contro tutto. In molti ci avevano sbattuto senza riuscire ad infrangerla. Nessuno lo aveva sentito pronunciare parola da quando era giovanissimo. In fabbrica, per strada, o allo stadio, dove gli capitava di trascorrere ogni tanto i suoi pomeriggi alla domenica. Mai un suono, un gemito, o un sforzo seppur vago nel tentativo di aprirsi. Rispondeva sempre nello stesso modo, con qualche riga scritta. Rispondeva a quelle poche domande che riteneva degne di risposta, oppure a chi lo provocava. E se ne andava in giro con penna e taccuino a portata di mano come i camerieri.

Tirò fuori la vecchia Parker e la gettò con rabbia sul tavolo, poi si alzò dalla sedia strappando i pochi fogli che ancora erano rimasti incollati alla copertina del blocchetto sgualcito.

E’ finita, pensò. Serve parlare oggi. Serve parlare e basta. La morte mi tolse la parola tanto tempo fa, la morte dovrà restituirmela. La morte non è solo la fine, è anche una forza tremenda che t’imprigiona. E io ho una ragione seria per resistergli stavolta; per affrontarla di petto questa storia di morte. Non dimentico chi mi ha aiutato.  O meglio, non ho mai dimenticato chi mi aiutò, tanti anni fa.

Indossò la tuta blu ed i guanti di vecchio piaggista, prese vanga e falce dal capanno degli attrezzi, si fermò un attimo volgendo lo sguardo al ponte di ferro che aveva cominciato a muoversi appena. Il treno era a un chilometro, o poco più. Ma solo lui lo sapeva.

L’aria intorno ristagnava pesante e la donna – che avrebbe dovuto avere cinque sei anni più di lui – lo guardava con occhi di ferro dal fondo degli “spogliatoi”. Sentì un conato salir su dagli inferi, ma lo ricacciò indietro sputando fuori tutta l’aria che aveva in corpo. Ripulì alla meglio la parte di terreno ripido che lo avrebbe condotto a mezza buca e pensò a suo padre. Ricordò il suo viso, e tutta la severità che da quel viso traboccava ogni volta che lui inciampava nella sua vita di piccolo uomo. Si asciugò la fronte e continuò a tagliare l’erba e i rami che ancora gli impedivano di scendere più in basso. Lavorò due ore prima di aver ripulito a sufficienza e poter avvicinarsi alla donna. Non era sua intenzione rimuoverla o portarla via da lì. Voleva solo impedire a chicchessia di vederla in quelle condizioni, assicurarle una dignitosa sepoltura. Prima possibile. La faccia era gonfia, tumefatta, e il naso accartocciato su se stesso. Avvolse le parti intime del corpo nei brandelli di veste rimasti e l’adagiò nel cunicolo che aveva scavato a fianco, lungo a sufficienza per ospitarla distesa. Cercò di risistemare i rami e le sterpi come se nessuno si fosse avvicinato a quel posto da secoli e salì di nuovo in superficie. Ritenne di aver fatto un buon lavoro. Era impossibile per chiunque scoprire un cadavere là in fondo. Neanche il miglior segugio lo avrebbe scorto.

Fece ritorno a casa e si abbandonò ad un bagno caldissimo. Mangiò un boccone, e alle dieci di sera, stretta la maglia buona intorno alla vita, si diresse verso il centro per la strada principale. Decise per il giro lungo insomma, quello che di solito evitava preferendo tagliare dai campi e dal ponte di ferro. Nella cabina telefonica della grande piazza sfogliò l’elenco, trovò il numero e lo compose sulla tastiera, attendendo poi che una voce all’altro capo rispondesse: “Pronto famiglia Brunelli, chi parla?”

“Mi chiamo Boni, Alessio Boni. Vorrei parlare con il notaio per favore.”

“Il Notaio non si sente bene. Mi scusi, chi è lei?”

“Non importa il mio nome. Devo parlare con il notaio adesso. Devo dirgli qualcosa di sua moglie. È una cosa importante.”

“Di sua moglie ha detto?! Venga a casa! Si sbrighi!” disse perentoria la voce prima di riattaccare.

Garrincia rimase con la cornetta in mano, stupito da quella reazione apparentemente senza senso.

Guardò di nuovo sull’elenco l’indirizzo del notaio e in pochi minuti fu sotto casa sua. Suonò il campanello e qualcuno aprì la porta senza rispondere al citofono. Una vecchia alta un metro e cinquanta attendeva sulla porta interna: “Il notaio la sta aspettando nella sala grande, oltre l’arco, sulla destra.” Garrincia si sgangiò l’ultimo bottone della camicia e avanzò nella penombra senza pronunciare parola. La sala grande. Era un’immensa esposizione di arazzi, statue e pendagli d’inizio anni settanta. Roba da fare svenire un mulo sanissimo. La luce del corridoio rifletteva dal fondo della stanza una figura d’uomo seduto in modo scomposto su una delle tante poltrone. Garrincia si avvicinò: “Lei è il notaio Brunelli?”

“Sono io. Che cosa deve dirmi su mia moglie?”

Si guardò intorno ancora una volta, ma tutto quello che riuscì a distinguere fu solo una vecchia tela con un morto nella vasca da bagno. “Fottuto francese…”, pensò. “Mi dica prima lei una cosa. Aspettava qualcuno, è ovvio. Chi esattamente?”

“Aspetto qui da ieri notte e aspetterò per la vita intera chi mi porterà notizie su mia moglie.”

“Notaio, lei sa dove si trova sua moglie?”

“No di certo, lei me lo deve dire! E me lo deve dire subito!”

Garrincia non capiva. “Senta, io ieri, quando lei ha litigato con sua moglie in campagna, oltre il sottopasso, sulla via delle colline, ero là…o meglio ero nel mio soggiorno e vi ho sentito…”

Non lo aveva riconosciuto subito il notaio la sera prima. Pensava che la donna bruna, bellissima, stesse litigando con uno dei frequentatori della zona, ma quando l’uomo si era proiettato fuori dalla macchina, bestemmiandole in faccia e ricacciandola poi a calci dentro la Mercedes berlina, comprese all’istante tutto quanto.

Riferì al notaio le minacce che i coniugi si erano scambiati e raccontò come da casa sua assistesse ogni sera a strani incontri, trattative inconfessabili per chissà quali tristi giochi fra persone di ogni età e provenienza. Un ritrovo per gente sola e disperata. Le ricordava tutte le facce degli habitué e conosceva anche quella di sua moglie.

Cominciò a piangere come un bambino il notaio, come un bambino abbandonato in aula al primo giorno di scuola: “Non le avevo mai fatto del male! Non l’avevo mai picchiata! Ho sopportato i suoi tradimenti e le sue bassezze una vita intera! E ho sopportato anche l’ultima vergogna: vederla in quello squallido posto con quella gente ancora più squallida. Solo le menzogne non le ho perdonato. Solo quelle. E quando ieri sera ha provato a raccontarmene altre sono come impazzito.

“Signor Brunelli…non è importante adesso…mi perdoni la prego. Le rifaccio la domanda. Lei sa dove possa trovarsi sua moglie adesso?”

“Non lo so dove diavolo sia quella troia!”

“Mi racconti cosa è successo ieri sera dopo che ve ne siete andati via in macchina.”

Le lacrime non lo fermarono: “Siamo scesi di nuovo all’argine…Lei ha provato a fuggire, l’ho rincorsa e dopo l’ho afferrata…”

“E poi?”

“Non lo so, non mi ricordo…credo di averla colpita. Le ho dato un pugno forte in faccia…ed è scomparsa di nuovo. L’ho cercata e cercata ancora…ma niente. Sono tornato alla macchina ma…”, alzò gli occhi e dietro lo spesso velo guardò in faccia Garrincia. “Perché le sto raccontando tutto questo?”, sembrò riacquistare un barlume di lucidità. “Io lei non la conosco. Non l’ho mai vista prima…”

“Si sbaglia signor Brunelli. Lei mi ha già visto e mi ha salvato la vita una ventina d’anni fa. E la cosa che più mi rammarica…” Trattenne il fiato e inghiottì tutta la saliva che gli si era gonfiata in bocca. Sentiva la testa esplodere e muoveva le mani a fatica. L’incapacità di sostenere quel confronto lo stava paralizzando. Ci fu un lungo silenzio. La grande sala piombò intera nel buio, anche l’ultimo riflesso si spense alle loro spalle e Garrincia avrebbe voluto addormentarsi. Addormentarsi e basta.

“Senta notaio Brunelli, lei crede che sua moglie sia morta?” “Morta?! Ma che cosa sta dicendo? Mia moglie morta?” Il mondo si capovolse e Garrincia perse l’orientamento. Si aggrappò al bracciolo della poltrona come per riprendere il controllo ma fu inutile. Era sull’Enterprise. La giostra che lanciandoti in aria ti stordisce fino a quando non credi che tutto sia finito. Poi ricomincia. Si alzò, e senza dire una parola in più uscì dalla stanza. Sbatté contro qualcosa, ma non riuscì a capire cosa. Trovò la porta e saltò i gradini delle scale tre alla volta. Si piegò su se stesso e vomitò fino quasi a perdere i sensi. La notte era fresca e i lampioni la bordavano di un arancione macabro. Fissò il cielo, aveva bisogno del cielo, e rimase a guardarlo quanto gli fu necessario. Si asciugò la bocca con la manica della maglia buona e provò a correre verso il ponte di ferro. Ma non ce la fece, e maledì se stesso per non aver portato il bastone. Senza il fidato compagno avrebbe per forza dovuto tornare a casa dalla strada. Il giro lungo, il giro delle persone normali. Aveva provato quella notte, fossero state anche solo poche ore, a tornare una persona normale.

continua

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