“La sequenza è una raffica di elevate e surreali narrazioni: si comincia con Norwegian Wood, che peraltro è il secondo nella scaletta dell’album, e si prosegue con Nowhere Man, Girl e In My Life. Nel disco c’è dell’altro […], ma se prendiamo questi quattro pezzi e li ascoltiamo in sequenza possiamo notare la loro unitarietà, il filo che li accomuna e li rende quasi un’opera a sé stante.”
Ernesto Assante, Gino Castaldo, Beatles, Laterza, 2014

Una notte di un febbraio qualunque, compresa tra l’anno 2025 e l’anno 2031…
Premessa
Polmonite. “Batterica e agguerrita” dissero i medici, trasferendola subito dopo i primi accertamenti del pronto soccorso nel reparto di medicina generale. “La tratteniamo, sicuramente per le prossime quarantotto ore, domani approfondiremo le analisi e decideremo i tempi e i luoghi della terapia, almeno nella sua fase iniziale…” La faccia del camice bianco che pronunciò le parole guardando fuori dalla finestra era quella di un uomo stanco. Della vita, pensai, più che di una giornata dura. Portava baffi larghi sopra un grumo di brufoli che inquietavano. Aveva i capelli unti e marroni con qualche macchia di grigio ma non seppi capirne l’età. Lo guardai come si guarda un bimbo che recita svogliato In morte del fratello Giovanni senza crederci neanche un po’. Me ne stetti tutto il tempo con lei, a fianco del suo letto, seduto su una poltrona rigida che non potevo neanche reclinare all’indietro, nel caso fossi riuscito a prender sonno. Ma il sonno, quello vero, non bazzicò dalle nostre parti per tutta quanta la notte e io feci a meno della mia poltrona con spalliera pieghevole senza riuscire a darmi pace. La febbre era alta, il calore del suo corpo lo respiravo a folate, gli occhi una fessura bagnata dall’acqua di un pozzo profondo. Mia moglie era lontana da casa, fuori dal paese per via di certi suoi impegni importanti. Tentai inutilmente al telefono di nasconderle il ricovero e i motivi che si portava appresso. Benché le avessi mentito su tutta la linea, evitando di ammettere che ci trovassimo in ospedale e che la situazione fosse seria, lei, dall’altro capo dell’Europa, dopo aver ascoltato la mia voce, cercò disperata un aereo che la riportasse indietro in poche ore, inventandosi un rientro lampo la mattina seguente. Quando mi trovai la sua faccia di fronte poco dopo l’alba, vidi i solchi di una donna che aveva scalato tutti gli Ottomila della terra pur di raggiungere la figlia su quel letto nel minor tempo possibile. Credo che il suo sia stato una specie di record del mondo.
“Come puoi esser qui se abbiamo parlato al telefono non più di…” fu la prima cosa che mi venne in mente di chiederle guardandola dal basso della mia poltrona con spalliera fissa.
“Perché io le riconosco da lontano le tue stronzate…”
“Intendi tutti i generi di stronzate?”
“Vaffanculo!” Si piegò verso di lei e la strinse a sé. Mi alzai dalla poltrona allontanandomi di due o tre passi, quanto bastava a dichiarare la mia resa totale e incondizionata. Rimasi a guardarle pieno di ammirazione e riconobbi un miracolo dentro al loro abbraccio che consumarono trattenendo il respiro e fino quasi a scavarsi l’una con l’altra e diventare un corpo solo di rinnovata gravidanza. I lunghi capelli di entrambe mi parvero una coperta che copriva l’intimità dell’attimo al mondo intorno. Io non avevo scalato montagne quella notte. Mi ero soltanto limitato, in prima battuta, ad assecondarla, e a recitare con lei poi, da protagonista neanche troppo inconsapevole, un teatro messo in scena grazie allo sconvolgimento inatteso e improvvisato delle nostre vite. Non tanto le parole che spendemmo; le pause, e l’attesa che s’incuneò tra quelle stesse parole piuttosto, presero sembianze nuove, sconosciute. Come se un vento di maestrale ci spingesse a incontrarci in un tratto di mare che non avevamo navigato fino ad allora. Avrebbe compiuto ventitré anni di lì a poche settimane. O forse ventinove. Non lo ricordo, e non credo che abbia molta importanza. Era mia figlia. Lo era sempre stata. Il medico con baffi e brufoli fece la sua ultima visita intorno alle undici di sera e non aggiunse niente a quanto già sapessi. Disse che non avrei dovuto preoccuparmi più di tanto e che si trattava di attendere le prime risposte a Tachipirina e antibiotici già in circolo. Mi regalò un po’ di ottimismo dai suoi occhi buoni prima di sparire con l’infermiera che al posto delle tette aveva due missili MILAN. Mi chiesi come avrebbero trascorso la notte i due. Fuori l’inverno bucava la pelle, la neve oramai era più di una minaccia, ma al caldo torrido di quella stanza avrei potuto starmene nudo come Tarzan nella sua foresta.
“Vorrei che tu mi parlassi, babbo.”
“Ok, di cosa vorresti che ti parlassi esattamente?” le domandai.
“Non so, potresti raccontarmi una favola.”
Sorrisi avvicinandomi al letto. Il delirio non di rado si accompagna alla febbre alta. La guardai negli occhi umidi: gli angoli delle labbra allargati a rincuorarmi, e le spalle curve come una vecchia di cento anni. Un ghigno le attraversò di colpo il viso arrossato. La sua espressione non ammetteva repliche. Me lo ripeté una seconda volta: “Vorrei davvero che tu mi raccontassi una favola.”
“Non ricordo di averlo mai fatto quando eri bambina.”
“Appunto. Per questo te lo sto chiedendo. Pensa a quanto sei fortunato come padre. Sono qui a concederti una seconda possibilità. Non capita a tutti quanti.”
Avrei potuto riscattarmi a sentir lei, eppure provai a resisterle, come avevo fatto tante volte in passato: “Io non ho in mente nessuna favola. Sarei un disastro…”
“Raccontami dei Beatles. Mi hai fatto due scatole grosse così, fin dal giorno in cui sono venuta al mondo. Adesso ti chiedo io di loro. Ne sai più di chiunque altro. Nessuno conosce quei quattro tizi meglio di te. Raccontami una loro storia. Che non hai mai rivelato a nessuno in vita tua.”
Parlava a scatti e si muoveva smaniosa sotto il lenzuolo. Mi alzai in piedi e sfilai la felpa che mi premeva sul collo lasciando impressa una riga pesante di sudore, respirai a fondo prima di riuscire solo a immaginare uno spunto da cui il mio racconto potesse prendere avvio. Tornai a sedermi cercando una posizione comoda. Lei spostò il suo corpo verso di me, poggiò la mano fra guancia e cuscino e s’inventò una strana mimica, di quelle che non avevo mai scorto nel suo volto prima di allora, un movimento leggero e asincrono delle sopracciglia. La camera era vuota, nessun paziente occupava i letti vicino. Il silenzio faceva da sentinella. Mi sentii in gabbia, non scorsi vie d’uscita, chiusi gli occhi e confidai che il fiato mi suggerisse le battute. “Preferisci Lennon o McCartney? Eh no, cazzo…”
segue: The Beatles