Napoli e i suoi fantasmi

Questa domenica in dicembre non sarebbe trascorsa così (perché questa domenica è tutto fuorché pesante), l’inverno è vero che cominciava più “nature” vent’anni fa (o giù di lì), ma l’incoscienza, quella che prende le mosse dentro al basso ventre, me la sento addosso più di quanto non mi accadeva da ragazzo. A Napoli oggi nessuno pranza a tavola. Tutte le famiglie sono uscite fuori e le piazze paiono esplodere. I marciapiedi straripano, la gente fa quello che faceva Bono in quella sua canzone vecchia di un bel po’ di anni: si arrampica in alto, corre, striscia, scala i muri dei palazzi. Solo per raggiungere il banco della prima friggitoria che incontra ai lati della strada. Pizza a tranci e strati di pasta piegati come si piega un foglio A3. Tre, quattro di quei cartocci gialli, fatti a spirale, per ogni mano che passa, neanche fosse l’ultima occasione che la vita ti offre di ‘ndrofà. Napoli è un incastro di città tenuto assieme da una forza possente e misteriosa. Non c’è soluzione tra sfarzo e povertà. Tra passato e trapassato. Il trapassato è la via d’accesso al futuro. Non so immaginarmi nessun futuro io, e se potessi scegliermi un passaggio segreto che mi porti in un tempo lontano dal nostro, lo vorrei qui, a Vico del Fico al Purgatorio, a pochi passi dalla Cappella di San Severo. Dalle parti di Spaccanapoli insomma. Una casa chiederei, e un terrazzo sporgente con dietro una stanza per quando piove e fa freddo. Perché quaggiù puoi mangiare per strada, ve l’ho detto. E puoi leggere il tuo libro “nuovo” che hai comprato a Via dei Tribunali seduto sui gradini di una chiesa qualunque. Non finiscono mai le chiese a Napoli. Ci sono chiese e gradini come in nessun altro luogo del mondo. Non mi servono le chiese a dire il vero, perché se dio un giorno decidesse di farsi vivo con me, mi aspetterei d’incontrarlo, che ne so, al concerto di Mc Cartney, o allo stadio, nascosto in curva in mezzo agli ultras, durante la finale Champions tra Manchester e Fiorentina. Però dove c’è una chiesa vecchia è probabile che la mano di un uomo abbia creato bellezza. E qui sembra che le cose siano davvero andate così. Ci sediamo a un tavolino, Mary di faccia alla sua pastiera, io alla mia margherita con bufala. È un momento breve il nostro; pochi, intensi attimi senza pensieri per la testa. Sorridiamo e ci perdiamo nella profondità dei nostri piatti. Non ho il tempo di avvicinare la forchetta alla bocca che compare dal nulla un signore con pochi capelli, la faccia piena, il naso a patata e la cravatta di Marinella sotto alla giacca elegante. Ci fa segno che intende sedersi al nostro tavolo. Io e Mary gli diciamo sì, senza neanche guardarci. “Potete offrirmi un caffè?”, chiede.
Risponde lei: “Non solo un caffè, anche una fetta di pastiera se vuole. Lo diciamo subito al camer…”
“No, se devo approfittare fino in fondo della vostra gentilezza, allora preferisco gli struffoli.”
Mangia e beve di gran voglia il signore elegante e solo alla fine comincia a parlare. Io e Mary ci divertiamo e stiamo bene da pazzi.
“Dunque, dato che siete stati così gentili e disponibili con me, vi dirò chi sono, accordandovi pure il permesso di raccontarla in giro la storia che adesso io sto per rivelarvi…”
Poggio la schiena alla spalliera della sedia, distendo le gambe e mi godo il suo teatro.
“Io sono il Principe. L’unico, vero Principe di questa città. Mi chiamo Raimondo. Raimondo di Sangro.”
“Peccato che il principe di Sangro sia morto più di duecento anni fa…”, lo interrompe Mary.
“Signora ‘bbella, lei ha ragione assai. Io non sono lui da vivo, ma il suo fantasma, non ve ne siete accorti?”
In effetti no. Il particolare mi è sfuggito, penso, mentre scivolo ancora più in basso nella sedia.
Continua: “Abito ancora nel mio palazzo qua dietro, a due passi… A tal proposito vi invito personalmente a fare un salto presso la Cappella che vale davvero la pena visitare.”
“Principe…” interviene ancora Mary, “…avevamo giusto deciso di andarci domani.”
“E fate bene. Vi terrò da parte due pass per l’occasione. Presentatevi direttamente all’ingresso, in giornata, all’ora che preferite. Che stavo dicendo? Ah sì, la mia storia. Ecco, devo confessarvi che sono un uomo crudele ed invidioso.”
Non si direbbe dall’aspetto. E neppure dai suoi modi garbati.
“Volete sapere alcuni dei misfatti che ho compiuto da vivo, signori ‘bbelli?”
“L’ascolto Principe. Con impazienza e un pizzico d’inquietudine”, dice Mary.
“Ero scienziato, alchimista, alto dignitario e custode d’arti, e pure inventore malefico. Ordinai l’uccisione di un uomo e una donna per mostrarne al mondo gli scheletri e le viscere. Ma non basta. Uccisi pure sette cardinali e ne feci delle sedie con le ossa e la pelle. E poi cavai gli occhi a Sanmartino, ché non potesse creare mai più a nessuno il suo – il mio! – Cristo straordinario. Ma non basta ancora. Produssi stoffe senza doverle tessere, navigai per mare con la mia carrozza, fui fatto a pezzi da uno schiavo e rinchiuso in una cassa pronto a ricompormi e risorgere come neanche il figlio di Dio. Peccato che qualcuno scoprì in anticipo i miei resti che caddero di nuovo in frantumi al contatto con l’aria…”
“Mi scusi Principe…”, lo interrompo io stavolta, che nel frattempo ho riacquistato una posizione decorosa sulla mia sedia, “…abbiamo capito che lei era un personaggio crudele. Ha detto poco fa di essere malato d’invidia. Perché, e nei confronti di chi, mi perdoni?”
Mi guarda in faccia senza pronunciare parola. Poi si volta in direzione di un muro poco distante e indica un vecchio manifesto che nessuno mai oserebbe strappare da quella pietra a cui apparterrà in eterno. Riprende a parlare il Principe: “All’uomo del manifesto invidio il talento che non trova posa e misura, al pari di Sanmartino. L’uomo del manifesto è un fantasma come lo sono io. Aleggia in questi borghi e tutti gli vogliono bene come se ne vuole a un figlio o un fratello. A differenza di me però, è il fantasma di un uomo ancora in vita”.
“Principe, in cambio degli Struffoli e del caffè le chiedo una foto. Io, lei e l’uomo del manifesto.”
Mary paga il conto e noi ci avviamo sull’altro lato della strada. È più basso di me il Principe. Una spanna e oltre. Mi prende sottobraccio e si mette in posa davanti all’uomo del manifesto. Mary scatta la nostra foto da quattro, cinque metri e ripone il telefono nella tasca della giacca tenendosi al manubrio di uno Scarabeo, preda di un mancamento. Le corro incontro e per un soffio riesco a trattenerla in piedi. Si appoggia alla mia spalla e non parla. La faccia bianca di un cadavere. O di un fantasma. Quasi fossimo a un convegno. Il Principe nel frattempo è scomparso. Il silenzio di Mary è il nostro scudo mentre camminiamo a fatica verso San Gregorio Armeno ed io mi limito a vigilare sul pallore del suo volto. La mattina seguente ci vorrebbe in coda alla biglietteria della Cappella di San Severo se non fosse per un giovane che venendoci incontro sventola in alto due pass per la visita al Cristo velato e ai tesori che gli posano attorno.
Sul treno che ci riporta a casa chiedo a Mary di quel suo malessere passeggero in una mattina di qualche giorno addietro tra le strade nei pressi di Spaccanapoli. Lei non risponde, armeggia allo smartphone qualche secondo mostrandomi la foto di me, il Principe e l’uomo del manifesto che rimarrà appeso a quel muro per l’eternità.

Lo scatto che ci immortala tutti e tre assieme è in alto. il Principe di Sangro, il sottoscritto e l’uomo del manifesto.