

La convention
Il quaderno pareva non avere fine. Come il viaggio di Colombo, la fatica che si rinnova, l’attesa di una chiamata, una notte insonne. Le pagine si moltiplicavano da sole come fossi dentro una sorta di rito magico ed io allora dovetti inventarmi una chiosa. Prima di rinunciare a una lettura nuova. Prima di lasciare la casa di mia madre. Prima che il temporale sfilasse del tutto.
Chiesi di non andare. “Che potrebbero farmi? Non credo che mi licenzieranno…”
“Tu vieni, dai retta. E’ meglio che tu vieni.”
Indicativo e congiuntivo sono scelte obbligate, a meno che non approfitti di licenze letterarie particolari. Il direttore non è munito di licenze. Quella di terza media forse. E’ obbligatoria la licenza di terza media.
Non me ne fregava nulla della convention. L’amministratore, il direttore acquisti, il direttore vendite, il capo del marketing e poi le facce di tutti gli altri ammorbate da una sorta di virus letale che li ha colti senza che loro abbiano mai saputo (o forse si, lo sanno da sempre). Una grande recita con attori nefandi da tutto il paese, un teatro splendido per uno spettacolo imperdibile. Cravatte, giacche lucide e scarpe di vernice. Concetti alti e uomini bassi. Uomini alti e concetti di bassa lega. La strategia, i numeri edificanti e i numeri non troppo gratificanti (evviva la rima). Il mio negozio. I tuoi reparti. Il tuo negozio. I miei capi reparto. Qual è il morbo da cui tutti costoro sono afflitti, mi chiederete? Il peggiore. L’ipocrisia e il doppio-triplo faccismo. Durante la settimana giocano a chi ce l’ha più duro infamandosi come fossero nemici giurati. Tizio dice a Caio che Sempronio è una testa di cazzo. Caio poi telefona a Sempronio riferendogli che in realtà la fava è Tizio. Alla fine del giro poi, secondo Tizio e Sempronio il coglione è sempre e solo Caio. Ecco che arriva la convention. Tizio, Caio e Sempronio si fermano a parlare dei loro successi, facce sorridenti, pieni d’amore e complicità. Fratelli di sangue paiono. E si siedono pure l’uno vicino all’altro, continuando i loro convenevoli dentro alla grande sala. Non smettono di parlare accompagnandosi con gesti dolci delle mani. Uno direbbe, a guardarli, che si vogliono bene davvero.
“Cosa ci vengo a fare?” provai a insistere senza troppa convinzione.
“Cosa ci vengo a fare, mi chiedi? E’ molto importante la convention, mooolto importante…”
Provai a contare le “o” senza successo.
“Parlerà il grande capo e indicherà le strategie. È giusto che tu sia lì anche tu…”
Porca troia aveva azzeccato il congiuntivo.
Si toccò gli occhiali, come se qualcosa lo avesse infastidito interrompendolo. Riprese subito: “…e, cosa dicevo, è mooolto importante che vieni…”
I congiuntivi stavano ritornando al loro posto.
“…è giusto che anche tu ascolti quello che verrà detto…”
Pensai, guardando il viso del direttore, che davvero non mi fregava nulla di tutto ciò. Pensai anche di non avere grandi possibilità, e che sarei andato alla convention.
“Giacca e cravatta sono obbligatorie” ordinò.
“Non ho cravatte.”
“Te la compri una cravatta.”
“Non spendo soldi in cravatte.”
“Allora te la presto io.”
“Non merito di indossare una tua cravatta.”
Partimmo al mattino presto. Il grande ritrovo era a Firenze. Teatro tenda in riva all’Arno, nella parte sud della città, non troppo distante dallo stadio. Avrei dovuto tornare allo stadio un giorno.
Eccole là tutte le facce dei direttori tirate a nuovo, colletti in ordine, denti bianchi, pulizia e rasatura in quantità. La mia era una barba di cento giorni. Un collega del nord mi disse che parevo un “anarchico all’estrema” fuggito di galera piuttosto che un vicedirettore. Io a quelle parole cominciai a sentirmi meglio. Le parole del collega, che non volevano essere un complimento, mi rinfrancarono. Ma cosa aveva inteso con “anarchico all’estrema”? L’espressione mi parve una tautologia. Un anarchico è per forza all’estrema. O forse no. Sorrisi. Lui non lo saprà mai, ma io godetti di quella sua uscita inattesa. Un anarchico all’estrema in quell’ambiente era una stridente contraddizione. Ed io percepivo la mia presenza così, come una contraddizione profonda. Nei termini e nei fatti. Provai uno strano senso di orgoglio. Indossavo una giacca di velluto marrone, camicia verde militare, jeans striati e scarpe da tennis. Gaetano Bresci, molto più all’estrema di me, dovette portare indumenti eleganti per il giorno della sua personalissima grande festa. L’abito non fa il monaco si dice in giro. Fa il manager, l’abito. Non ho la stoffa del manager io, dentro e fuor di metafora. Ci mancherebbe, sono perfino un pessimo vice capo (ah, parleremo tra poco del vice capo), lo so bene, duro fatica ogni giorno perché perdo ogni giorno un altro po’ di passione. Perdo passione e riesco a pettinarmi. Mi guardo ancora allo specchio, voglio dire, non so per quanto tempo potrò continuare a guardarmi. Terrò botta ancora per molto? Tengo botta perché tengo famiglia. In ogni caso mi presentai alla convention da anarchico all’estrema. Non lo sapevo, un collega era stato bravo ad avvertirmi. Cercai da lontano, fuori del teatro, i volti che non mi piacevano e da cui avrei dovuto stare alla larga. Erano parecchi, per motivi differenti. Poi sorse spontanea un’altra domanda. Chi erano coloro che avrei salutato volentieri? Guardai meglio le facce intorno. A un certo momento giunse un nuovo gruppo di colleghi dalla strada. Molti non li avevo mai visti, di altri mi ricordavo a malapena. Emiliano era una faccia amica. Mi venne incontro e chiacchierai volentieri con lui qualche minuto. Ci dicemmo un po’ di cose, qualcuna interessante sul serio. Gli chiesi della sua compagna (anche lei una bella persona) e dei gemelli che stavano aspettando. Si fanno ancora i gemelli. Oggigiorno ad uno gli verrebbe da pensare che i gemelli siano roba vecchia, che non usa più. E invece no, si concepiscono davvero. E’ pazzesco. Entrai nel tendone, qualcuno mi consegnò un cartellino con il mio nome e il mio ruolo (sic!). Taldeitali, vice direttore del punto vendita di Cormorano sull’Arno, area di centro. Sono un vice direttore. Appunto. La figura del vice è in via d’estinzione in tutto il mondo. Siamo rimasti solo noi e Joe Biden. Pensate, Joe Biden è la seconda persona più importante sulla faccia della terra e non lo conosce nessuno quasi. Che senso può avere, mi domando, impersonare un vice dentro a un negozio della distribuzione organizzata in un piccolo paese della provincia toscana? Questione tosta davvero. L’unico motivo vero dell’esistenza di Joe Biden è il sopraggiungere più o meno improvviso dell’impedimento del capo. Io vado a lavorare per una, due ragioni al massimo, non mi alzo di certo la mattina con la speranza che il mio capo diventi persona impedita. Ci mancherebbe. Entrai nel tendone e mi spostai verso un gruppo di sconosciuti, illudendomi così che nessuno tra quelli che non sopportavo sarebbe venuto a infastidirmi. In fondo a sinistra. C’erano ancora molti spazi vuoti. Una voce sul palco invitava ad avvicinarsi. Abbassai la testa e feci finta di niente. Mi sedetti nelle ultime file e accesi il mio Samsung. La pagina del Corriere mi riferì sullo stato d’avanzamento della riforma che i ministri Monti e Fornero stavano mettendo in piedi. Pensai che se avessero cancellato l’articolo 18 prima delle undici mi avrebbero licenziato, lì, seduta stante, in mezzo alla festa. Dal palco l’amministratore avrebbe chiesto la parola annunciando che “stanti le nuove norme in tema di lavoro; considerando le grandi opportunità che vogliamo cogliere in vista dei prossimi traguardi posti a noi di fronte; mantenendo dritta la barra in direzione del baluardo strategico che ci siamo imposti e che dovrà per forza contraddistinguerci dai nostri competitors, ossia il servizio al cliente, valore massimo e sopra ogni altra cosa; in virtù di tutto ciò, caro Taldeitali, quest’oggi ho l’onore di comunicarle che lei è licenziato. Fuori. Via. A casa. Adios. Buenas dias. Cisivede.” Chiusi internet un poco preoccupato. Provai a pensare che un anarchico all’estrema non avrebbe dovuto lamentarsi di licenziamenti e sciocchezze simili. Alzai lo sguardo, i visi peggiori, quelli che non sopportavo, ce li avevo tutti intorno. I più vicini, proprio davanti a me, Tizio, Caio e Sempronio. Il teatro era colmo ormai, sarebbe stato un problema spostarsi. Mi arresi anche perché lo spettacolo stava per incominciare. L’amministratore era in piedi sopra al palcoscenico, dietro al baldacchino, pronto ad aprire i lavori (o chiudere la partita). L’introduzione non fu granché, il collegamento video con gli uomini di punta della casa madre una pena tremenda. Convenevoli, ringraziamenti, dichiarazioni di fedeltà, pennellate di insano rufianismo al sapor di melassa e nulla più. Mi annoiavo e già lo sapevo che mi sarei annoiato. L’amministratore poi lasciò il campo a non ricordo chi ed io in quel momento preciso mi alzai dalla sedia per una gran voglia improvvisa di pisciare. Cercai un varco senza dare nell’occhio. Riuscii a sgattaiolare fuori dalla grande sala in un attimo. Respirai una volta nell’ingresso centrale, di fronte alla ragazza del guardaroba. Mi sorrise la giovane dicendomi che si chiamava Camilla. Beh, io non potevo rimanere indifferente ad una giovane ragazza carina che si chiamava Camilla.
“Io sono la cugina di Alice”, aggiunse immediatamente dopo essersi presentata. Stavo per dirle che ero felicemente sposato e chissà quali altre scemenze avrei aggiunto se non mi avesse infilzato con occhi appuntiti, trasparenti come il diamante. Scese il silenzio tutt’attorno, anche la voce della sala diventò muta. La ragazza mi fissò e io non seppi cosa dirle. Soprattutto non capii se stessi in mezzo a un sogno o a uno scherzo. Mi sfiorai un braccio. Quando sogno va sempre a finire che un braccio mi si addormenti. Le braccia erano più sveglie di me. Non dissi niente più, abbassai gli occhi e voltandomi mi avviai al cesso per fare quello che ero venuto a fare fuori della sala. Quando ricomparvi nell’ingresso centrale la ragazza che aveva detto di chiamarsi Camilla non c’era più. Provai a cercare in giro, uscii dal teatro. Giunsi fino in riva all’Arno. Presi un sentiero che portava giù dritto fino al pelo dell’acqua. Un sacco di gente faceva jogging, altri andavano e venivano chiacchierando tra loro, trainando passeggini, parlando ai cellulari. Guardai a sinistra e poi a destra. La riconobbi non so nemmeno io perché. Non l’avevo mai vista. La riconobbi e basta. Stava seduta sopra un fascio d’erba umida, sulla riva, da sola, guardava davanti a sé. La chiamai da lontano e voltandosi esplose in un sorriso che mi riempì cuore e polmoni. Dora era seduta sulla riva e mi aspettava. Mi sedetti vicino a lei senza parlare. Trascorremmo un po’ di tempo senza dire nulla. Alla fine pronunciai poche sciocche parole: “questo non è il nostro fiume.”
Rispose senza smettere di sorridere: “nemmeno il suo”, indicandomi con uno spostamento in avanti del collo l’altra sponda.
Un giovane di là accennò un saluto, lieve certo, ma quanto bastava a farsi notare. Strani abiti e strana capigliatura. Alla fine riconobbi anche lui. Il fratello grande sulla riva opposta ci aveva inviato un segnale. Stava a noi decifrarlo. Stava a me capire. Dora era scomparsa nel frattempo. Era scomparsa negli attimi in cui mi ero distratto a mettere a fuoco la riva opposta. Mi alzai convinto di dover rientrare nel teatro e attendere la fine dello spettacolo. Poi avrei preso finalmente la strada di casa. Percorsi il corridoio dell’ingresso, entrai nella sala scavalcando a fatica una transenna e suscitando l’ilarità in un paio di colleghe sedute da quelle parti. Non trovai risposte diverse da un sorriso ebete di rimando. Poi la cupezza mi avrebbe di nuovo preso una volta seduto in mezzo alle fila di sedie, tra gambe e visi di nemici. Ci stavo davvero in mezzo ai miei più acerrimi nemici. Mi piegai in due quasi, provando a scomparire. La voce sul palco era un rumore di fondo, nulla più. La voce parlava e io mi piegavo. Le strategie, il mercato, i concorrenti, i buoni e i cattivi, il cliente che dobbiamo far innamorare. La speranza che tutti fossero ingoiati dalle viscere in un colpo di magia nera improvviso. Tornai su poi. La schiena si era raggrinzita e mi faceva un male boia. Un uomo dall’altra parte del salone, poche file davanti alla mia, mi stava osservando. Non lo conoscevo. Faccia scura, capelli striati come i miei jeans, camicia sportiva. Tra i pochi a non indossare cravatte. Mi fece un segno.
“Cazzo…” mi chiesi “…chi è questo adesso?” Non sapevo se dovessi cominciare ad aver paura. Della mia testa. Provai a distrarmi, ma lui, di lontano, continuò imperterrito a guardare dalla mia parte. Poi si alzò e camminò verso il fondo del teatro. Lo seguii con gli occhi fin quando non mi parve imboccare l’uscita. Sospirai credendo veramente che fosse il caso di calmarsi. Non c’era nulla da temere. L’uomo striato che mi aveva guardato più di un istante non ce l’aveva con me, certo. Non lo conoscevo l’uomo striato quindi non poteva aver guardato me. Poi qualcuno mi toccò la spalla e mi riportò di botto dentro alla sala. Saltai in aria per lo spavento e caddi maldestro di nuovo sulla sedia. Mi voltai e lui mi porse un biglietto che teneva tra le dita. L’uomo striato aveva compiuto il giro ed era venuto a sedersi dietro alla mia sedia. Raccolsi il biglietto trattenendo il respiro e tornai con la faccia rivolta al palco. Guardai alcuni secondi la donna elegante che stava indicando alla platea tabelle, grafici, numeri. Non sentivo la voce della donna. Pareva una recita muta la sua. Aprii il biglietto dentro a un silenzio appiccicoso come gelatina.
Come vedi continuo a non saper parlare. Insisto nell’usare biglietti e taccuini, proprio come i camerieri (tanto per usare una tua espressione). Voglio dirti che ci sono strade differenti per continuare. Ci sono scappatoie certo. Ma anche strade maestre. Le strade maestre non sono fatte d’asfalto e mattoni. Polvere e fango ci trovi. Devi attraversarlo il fango, e devi impolverarti. Rammenti gli uomini di polvere e fango dentro le trincee luride? Rammenti Emilio Lussu? Rammenti le mie pene? Forse no. Forse non le ricordi avendole appena accennate in quel tuo racconto vecchio di qualche anno. In quel racconto v’ero io e qualcosa in più. V’era un balordo fuori dal mondo e fuori dal tempo che quasi credesti un eroe. Non lo ero un eroe. Non lo sarai mai nemmeno tu. Non ce ne sono in giro, sappilo. Solo uomini e donne che si piegano a fatica, e seguono le loro cose (i pensieri d’acciaio per primi) che li tengono sulla strada maestra. Lascia stare questo teatro. E queste persone. Non sono loro il problema. Tienili fuori. Vattene da questo posto, che non è tuo e non lo sarà mai. Sei tu a dover scegliere. Tra il fango e la polvere. Sempre. E ancora sempre.
Alessio Boni (Garrincia)
Piegai il biglietto e lo nascosi in tasca. Non mi voltai perché sapevo che l’uomo striato non era più seduto dietro me. La ragazza sopra al palco terminò il suo intervento di grafici e tabelle, lasciò il posto ad un vecchio che doveva avere centoventi anni o forse più. Scoppiai a ridere forte perché stavolta capii in anticipo. Il vecchio si tolse la giacca mostrando una maglia sporca di grasso. La platea intera esplose accecata dal riflesso del posacenere appeso al collo dell’uomo.
“Per questo ridete?” chiese lui al microfono. Grida e strepiti non si fermarono.
“Se è per questo che ridete, fate male. Dovreste tutti quanti voi portare al collo un ciondolo come il mio. Ma lasciamo stare. Mi presento.”
Guardai l’amministratore delegato, seduto alle spalle del vecchio, dietro al lungo tavolo, insieme a tutti i dirigenti più importanti. Le facce dell’amministratore e degli altri vicino a lui erano facce bianche di cadaveri preoccupati.
“Mi chiamo…”
“Si chiama Dalmazio…” urlai dalla mia sedia. L’intero teatro si volse verso di me.
Mi alzai in piedi e continuai a gridare: “si chiama Dalmazio ma non dategli ascolto. E’ tutta una bufala. Una gigantesca presa di culo. Nei miei confronti e un poco anche nei vostri confronti. Tiratelo giù da quel palco e non fatelo parlare.”
“Dovrebbe pensare bene a quello che sta dicendo signor…scusi mi può dire il suo nome e cognome per favore?”
Il vecchio sul palco era lui, non c’era dubbio. Anche i baffi alla messicana erano i suoi.
“Lo sai benissimo come mi chiamo stronzo. Scendi da quel palco e fai parlare chi ne ha diritto. Tu chi cazzo sei per stare lassù? Sei lì a spiegarci che cosa scusa?”
Le mie parole furono peggio di una deflagrazione atomica. E come una deflagrazione atomica dispersero in aria un silenzio di morte. La gente smise di ridere e gridare in attesa che il vecchio rispondesse alle mie provocazioni ed offese, e magari indicasse a qualcuno di trascinarmi via legato a una camicia di forza. In molti rimasero delusi.
Il vecchio riprese a parlare scegliendo di far finta di nulla, ed io fermai lì le mie invettive, ignorando da quale punto del mio cervello fossero schizzate fuori con tanta forza.
“Non fate caso a questa persona, non la conosco e risolveremo noi, da soli, dopo il mio intervento, il problema. Il mio nome, dicevo poco fa, è Giacomo Marmugi, e sono, molto semplicemente, l’unico vero proprietario dell’azienda per cui tutti quanti voi lavorate. Questi signori dietro di me, gli altri che avete prima visto e ascoltato su Skype, mi rappresentano ai vari livelli e sono stati tutti quanti selezionati e assoldati negli anni per aiutarmi a tenere in piedi la baracca. Ho deciso di parlarvi direttamente perché c’è una cosa importante che dovete sapere adesso. E soltanto io potevo riferirvi ciò che sto per riferirvi. La baracca non può stare in piedi ancora a lungo.”
Lo urlò dentro il microfono.
LA BARACCA NON PUO’ STARE IN PIEDI ANCORA A LUNGO.
“Non è possibile…” continuò “…dobbiamo tingerci i capelli di nero e farci allungare gli occhi alle estremità. Dobbiamo diventare più bravi dei cinesi se vogliamo tenere in piedi la baracca. Dobbiamo scordarci il nostro passato e pensare a un futuro diverso da quello che ci siamo immaginati fino a ieri. Oppure, come ha detto qualche economista più o meno illustre, possiamo decidere di ricominciare da zero…”, non lo ascoltavo più. Volevo tornarmene a casa. Avevo bisogno delle mia casa e delle mie persone. Giacomo Marmugi, detto Dalmazio poteva andare tranquillamente a farsi fottere. Conoscevo già il suo intervento. Lo avevo ascoltato nelle settimane passate. Probabilmente lui medesimo da qualche parte era venuto a raccontarmelo di nascosto. Non aveva importanza. Non era più interessante insomma, roba vecchia (non come i gemelli). Mi alzai dalla sedia e nello stesso istante cominciai a smettere tutti i miei panni. Tutti. Anche quelli che mi ero inventato per quella giornata senza senso. Smisi la mia giacca di velluto marrone, smisi di sentirmi un estraneo. Smisi soprattutto di essere un anarchico (per di più all’estrema). Molti osservarono la mia uscita dal teatro. Presi a tracolla la mia borsa e alzai il bavero della camicia. Il messicano voleva spingermi verso rinnovate illusioni di apocalissi che avrebbero salvato me per finta, distruggendo sul serio tutto il resto delle cose importanti lontane da quel teatro. Dovevo andarmene una volta per sempre. C’è un momento in cui un uomo deve uscire di scena. Respirai a fondo nel corridoio fermandomi davanti a uno specchio lungo quanto tutta la mia sagoma. Rimasi davanti allo specchio per un po’ di tempo a fissare le mie scarpe. Qualcuno dalla sala mi seguì fino all’uscita. Era un vecchio vestito di tutto punto, come la maggior parte delle persone là dentro. Mi si avvicinò dicendomi poche parole: “ciao, mi riconosci? Sono Carlos. Ti riporto io casa, tranquillo.” Infilai d’istinto la testa dentro al cappuccio della camicia (ho sempre avuto una camicia o una felpa con un cappuccio attaccato al collo), alzai gli occhi nello specchio, verso la mia faccia che non c’era più. Il riflesso era solo un’ombra che il copricapo proiettava in basso fino quasi alla curva della spalla. Distesi le labbra in un sussulto improvviso di gioia pensando a mia madre. Non ho mai saputo quali righe avesse tracciato quel sorriso lungo tutta la mia faccia.
alberto becherini, negli anni