Una vita intera sull’altipiano

Era un anziano e ossuto signore alto quanto me quello che mi stava davanti in coda alla cassa del bar. Da poco passate le due del pomeriggio mi trovavo lì nella mia pausa pranzo. Avevo voglia di un croissant salato con prosciutto e formaggio e anche di una birra chiara e robusta. Teneva le braccia distese lungo la schiena l’uomo, ed un libro in mano stretto fra pollice e medio, il dito indice invece infilato tra le pagine a non perdere il segno. Ho guardato la copertina e ne ho riconosciuto il titolo. Ho letto la prima volta quella storia da ragazzo. E di nuovo, a più riprese, in età adulta. Mi sono chiesto se davvero fosse quello il libro della mia vita. Ho continuato a fissare la copertina bianca senza riuscire ad intercettare uno straccio di pensiero buono a smontare la solennità della questione. Poi ho allungato il collo quando l’anziano signore ha chiesto un croissant salato con prosciutto e formaggio. La vetrina era vuota. Ho inspirato un bel po’ d’aria sapendo di dover ripiegare sull’ultimo hot dog freddo e rinsecchito.
“Vorrei anche una birra, corposa ed alla spina” ha detto l’uomo guardando negli occhi la ragazza dietro al banco. Si è voltato alla fine, spazzolandosi uno dei risvolti della giacca in panno grigio che portava sopra una felpa con la faccia di John Lennon. Mi ha lanciato contro una smorfia, non ho capito se era fastidio o rassegnazione la sua. La barba bianca pareva il prolungamento imposto dalla gravitazione universale ai capelli lisci e spettinati che gli scendevano oltre le spalle. Gli occhi azzurri e piccoli di una persona che avevo già visto da qualche parte.
“Stavo sbirciando il suo libro per capire di cosa si trattasse” mi è venuto da dirgli.
“Ma tu sai benissimo di quale libro si tratta, non fare il furbo.”
Ho sfilato gli occhiali appoggiandoli sulla fronte e mi sono avvicinato a lui di un passo.
“Alla fine torniamo a leggere gli stessi vecchi libri di sempre”.
“Si spieghi meglio…”
Mi ha interrotto: “Prendi il tuo bicchiere e quella specie di hot dog schifoso che ti ho lasciato in serbo, e sediamoci.”
Poi si è di nuovo rivolto alla ragazza ordinando un’altra birra e chiedendole di scaldare l’ultimo panino della vetrina, ha pagato il suo pranzo ed il mio facendomi segno di seguirlo. Mi sono guardato attorno confuso, in cerca di qualcuno che saltasse fuori a rivelarmi il trucco di quella messinscena. Il rumore della pioggia battente era un riparo. È stato lui a fare il racconto, tra un sorso di birra e l’altro. Le sue parole come un lancio di aeroplani di carta sopra la mia testa.
“Non abito più il centro della terra anche se rimango in attesa di un compimento che so bene non avverrà mai. Vorrei poter dire alla ricerca della mia finitudine, così, almeno da concedermi l’illusione che una traccia anche flebile mi conduca all’insuccesso finale.
Non abito più il centro della terra, ma resto avvinghiato ad uno stallo d’animo che dura da sempre, seppure abbia dovuto trasformarsi e assumere sembianze differenti nelle stagioni della vita che ho attraversato, che abbiamo attraversato. Quando ho ritenuto opportuno mascherarlo ho usato alle volte la supponenza, certe altre l’ira. Altre ancora la burla. Peggio di tutti è aver preteso da mia figlia, da nostra figlia, quello che non ho saputo pretendere da me stesso.
Non abito più il centro della terra e sono io il primo tra gli “scartati alla leva del folk” (adatt. F. Guccini, Via Paolo Fabbri 43). Mi sono detto cento, mille, un milione di volte: “Non fa per me”, fino al piomba libera tutti con le menzogne che ho cucito sottopelle. Poi, come il giocatore dei pacchi che scuote anzitempo la testa, mi è capitato di accettare l’offerta rinunciando al fremito del rischio. Illuso dentro alla mia scelta inutile proprio come il giocatore che carezza la scatola chiusa. Alla fine di tutto cosa è rimasto dunque? Solo un falso volo sul precipitare del tempo che si maschera di eterno.
Non abito più il centro della terra – ti ripeto – da quando uso uno sguardo breve sulle cose che la governano. Sono miope, proprio come te. Più dentro che fuori. Per questo passeggio a capo chino, e conosco a meraviglia i marciapiedi del mondo. Se alzo gli occhi di tanto in tanto mi viene naturale, d’istinto quasi, voltarmi all’indietro. Vedere cosa è stato ancor prima d’intuire che cosa sarà poi. Non sono un pessimista cronico, da compagnia semmai. Ed ho i miei buoni motivi. O forse no. Forse esiste una sola ragione che sta a monte di tutto: assomiglio a mia madre, a nostra madre. Vede nero lei, lo sappiamo bene. Vede nero, senza possibilità di uscirne, fin dai giorni del Miracolo, quando il suo volto splendido cominciò ad affacciarsi alla vita e l’orizzonte prometteva sereno perfino alle locuste e alla ragazza del Clan. Siamo figli di nostra madre noi, e della sua mancata guarigione.
Non abito più il centro della terra, eppure cerco ancora un “come” e un “perché”. Non mi servono risposte trite. E neanche “il genio dell’ottimismo”. Lussu, in queste nostre pagine che sono il suo bellissimo racconto dell’altipiano, tratteggia uomini di cui andare fieri, anarchici veri, fuori e dentro la trincea. Tutti avremmo dovuto conoscere Grisoni e Ottolenghi. E mentre ci dice di loro, si esalta Lussu, al ricordo di Baudelaire e “delle scintille di gioia umana che sgorgano dal suo pessimismo”.
Se il divino avesse davvero lasciato un segno potrei trovarlo solo in una delle sue schegge impazzite.”
Si è fermato quando la pioggia stava aumentando fino a coprirne la voce. Io non ho detto nulla, ho continuato a vedere i suoi occhi nudi che avevo già visto da qualche parte prima. Ha svuotato il bicchiere e tirato via una striscia di schiuma dalla bocca con la manica della giacca. John Lennon era anche lui invecchiato senza più lenti tonde a reiventarne il viso. Si è alzato dalla sedia poi il signore anziano, ha posato il libro sul tavolo di legno massiccio allontanandosi lungo la strada e lasciandomi da solo a quello scrosciare d’acqua che nel frattempo si era fatto spesso come una lama di baionetta.