Le favole di Rubber soul. George

Il bambino era seduto con le spalle rivolte al mare. Guardava nella mia direzione. Fu quello a sorprendermi. Le gambe intrecciate sulla sabbia, dove l’acqua lascia la sua striscia di schiuma prima del riflusso, il busto piegato all’indietro, la mano sinistra pareva tessere qualcosa nell’aria all’altezza del torace. Io lo fissavo da sopra la staccionata che divideva l’erba dalla spiaggia, mi ero portato i racconti dell’età del jazz di Fitzgerald, e stavo leggendo le ultime pagine di Benjamin Button e del suo caso assai curioso. Era domenica. Giorno di riposo per tutti noi. Cercai un orizzonte che non c’era, oltre le nubi che si spostavano in lontananza con un certo strazio, basse e cariche di pioggia. Un patino si muoveva rapido in mare e un uomo (ma non ero certo che fosse un uomo) nuotava fra i due moli dei pescatori. Dal largo una vela gialla tagliava le onde in diagonale verso riva. Posai di nuovo gli occhi sul bambino che pareva concentrato su un punto indefinito dietro di me. Lo sentii pronunciare alcune parole. Cercai di immaginare il suo interlocutore ma fu un esercizio inutile. Sdraiata sopra un telo vicino a lui una donna che avrei scommesso fosse sua madre. Si stava forse rivolgendo a lei senza guardarla in faccia. Saltai giù dalla staccionata e mi avvicinai all’acqua. La donna aveva in testa un fazzoletto scuro e la camicia di seta stretta e senza maniche. Pantaloni larghi sui fianchi che le signore non erano abituate a indossare in quel tempo, gli occhiali da sole tirati in alto sul foulard. Giovane e carina quanto bastava ad attirare lo sguardo della gente attorno. Leggeva una rivista e non si curava di nulla, neanche del bambino. Una volta che fui sul bagnasciuga il piccolo si accorse della mia presenza. Gli passai vicino e smise di fare quel suo gesto in aria con la mano. Non parlò più, abbassò a terra il viso come se non volesse essere guardato. La donna, rapita dagli alieni e trascinata dentro a un mondo fantastico, fissava una foto di Humphrey Bogart in una delle scene del film Casablanca. Mi allontanai seguendo la battigia, chiedendomi cosa fosse stato a procurarmi lo strano disagio che d’improvviso mi aveva distratto dal mio racconto. Il bambino, sua madre, o solo la mia incapacità di mettere a fuoco la scena, leggerla come ero in grado di leggere le pagine di Fitzgerald? Camminai fino a raggiungere un tratto di scogliera che puntava a perpendicolo l’orizzonte. Mi tolsi i sandali e la camicia e lasciai il mio libro sulla sabbia, saltai sulle rocce poi, fino al punto più distante dalla terraferma. Ero quasi in alto mare. Mi calai in acqua e presi a nuotare verso la riva trasportato dall’incedere lento di un’onda bassa e lunga. Vedevo la costa avvicinarsi e il verde del suo pendio venirmi incontro come una grande macchia confusa. Mi stancai alla fine, allora dovetti girarmi sul tronco e spingere con le gambe come se stessi pedalando in salita. Muovevo le braccia avanti e indietro, a mulinello, e raccoglievo alghe e carcasse di ricci portate alla deriva dalla corrente. Impiegai quasi un’ora per raggiungere la terra. Stremato, rimasi immobile e ricurvo a feto sulla sabbia per un bel po’ di minuti. Recuperati i sandali, la camicia e il libro di Fitzgerald feci ritorno al lido da cui mi ero allontanato. Fu quella la notte di San Lorenzo. La notte più buia di tutta l’estate. Nuvolaglia presa a prestito da altri continenti e stelle che non vollero cadere da questa parte di cielo. Mangiammo uova e bevemmo birra. Io, Jack ‒ detto La Motta per via del bicipite che non era un bicipite ma una zampa di rinoceronte ‒ e London, che se ne andava in giro a raccontare di essere il nipote di Jack lo scrittore. Il pane dello spaccio era il più buono della città da sempre. Si diceva che anche Rodolfo Valentino una volta assaggiato quel pane non ne avesse più voluto mangiare in vita sua uno diverso. Ne sfornavano in abbondanza due volte a settimana, la domenica e il giovedì. Noi venivamo a ingozzarci di uova in padella e pane fresco al massimo tre volte all’anno, dopo aver tirato via di nascosto qualche soldo dalle tasche dei vecchi. Io, Jack e London pulivamo le stive dei mercantili che al porto arrivavano dall’altra sponda dell’oceano. Disinfestazione, si chiama. Via i topi e gli scarafaggi, via tutta la merda che il continente di rimpetto al nostro ci spediva senza il controllo della dogana. Ci si infilava là dentro giornate intere e la sera il puzzo di marcio ribolliva sulla pelle al punto che eravamo noi a fare schifo ai sorci. Mi lavavo nel cortile dietro alla mia casa e lasciavo fuori i vestiti a svernare tutta la notte. Ad agosto o gennaio, non aveva importanza. Quel marcio ce l’ho ancora tutto dentro al naso. La paga era buona, il pane e le uova dello spaccio un ottimo motivo per spenderne in segreto quella che consideravo la mia quota legittima, sottraendola al resto della famiglia. Mio padre mi avrebbe ucciso se solo avesse immaginato il giochetto. Il mare ondeggiava inquieto la sera di San Lorenzo. L’estate del ’48 me la ricordo bene. Schizzi di un sole avaro come l’uomo che mi aveva regalato al mondo, pioggia quanta ne volevi e acqua color del legno. Lo spaccio era di fronte alla spiaggia. Si vedeva il porto a poche miglia, la città si stendeva alle nostre spalle invece, distante quel tanto che bastava a dimenticarla per una giornata intera. Il nostro era un rifugio dal mondo e dalla guerra che non la finiva di martellarci le tempie per non averne dovuto portare addosso il peso che invece tormentava le famiglie di quelli che non erano più tornati. Non eravamo morti noi. Ecco il grande torto che la Storia ci aveva sbattuto in faccia e che non avremmo più finito di scontare. La città pareva un grande recinto di prigionieri. Eravamo noi quei prigionieri, soprattutto i più giovani tra noi. Allora, quando ce n’era data la possibilità, si fuggiva a cercare aria nuova da scambiare con la morte che ci cresceva dentro e ci incancreniva i polmoni. Uova, formaggio e birra ghiacciata in quantità la notte di San Lorenzo. Smise di piovere alla fine e lo spaccio si riempì di gente, vennero aggiunti nuovi tavoli sul prato, qualcuno cominciò a battere le mani e a reclamare della musica. Di lì a poco comparve un tizio con un borsone sopra la schiena che posò a terra poco distante da noi. Dal borsone tirò fuori una fisarmonica, girò la tracolla sulla spalla prima di cominciare a muovere il mantice e far scivolare le mani agili sui tasti. Suonò un’antica ballata celtica mentre una signora anziana improvvisò passi di una danza che non conoscevo. Tolse il laccio dai capelli bianchi che si sciolsero morbidi lungo le spalle e giù in basso fino alla schiena. E continuò a muoversi sulle gambe come un angelo. Pareva che il terreno sotto le fosse quasi d’intralcio. Mi alzai per ammirarla più da vicino. Fu in quell’attimo che vidi seduti a un tavolo non distante da noi il bambino della spiaggia e la giovane donna che avrebbe dovuto essere sua madre. Anche lui mi riconobbe. Si accostò alla donna e le disse qualcosa nell’orecchio, lei parve sorridere e mosse la testa come per incoraggiarlo a fare qualcosa. Allora il bimbo si allontanò dal tavolo a corsa sparendo in direzione del bosco di lato alla palazzina dello spaccio. Non mi preoccupai più dell’anziana danzatrice che nel frattempo aveva attirato un bel po’ di gente attorno a sé. Non mi curai neanche della giovane madre che non aveva notato neppure per sbaglio il mio indugiare su di loro. Trovai un albero dove appoggiarmi e aspettare che il bambino tornasse a mostrarmi non sapevo bene nemmeno io che cosa. Trascorsero alcuni minuti poi lui spuntò di nuovo poco distante dalla zona in cui era scomparso tra gli alberi. Trasportava sulle braccia una grossa chitarra folk, e barcollava impacciato non riuscendo a vedere neppure il sentiero di fronte. A un tratto sbandò e finì sdraiato a terra sopra la cassa armonica. Si rialzò all’istante e mi vide che lo stavo osservando. Corse ai tavoli dove sua madre era là ad attenderlo. Aveva abbandonato la chitarra senza troppe esitazioni sparendo dalla mia vista. Mi avvicinai e la raccolsi. Toccandola mi convinsi che era in buono stato, non mi accorsi di ammaccature o altri danni dovuti alla caduta. Tornai indietro verso lo spaccio intento a riconsegnare lo strumento al bambino. La madre mi venne incontro e io notai che era vestita come nel pomeriggio, con quegli strani pantaloni larghi sui fianchi e sempre con gli occhiali poggiati in testa sul foulard. Non mi sorrise subito e lasciò che fossi io a parlare per primo. Guardai il cielo nero davanti a me nell’attimo in cui la scogliera distante veniva avvolta in una spuma d’acqua che un’onda le aveva scodellato addosso con forza. Attesi che si consumasse quello scontro tra mare e terra. Il rumore era coperto dal suono della fisarmonica e dalle grida della gente che ballava sul prato e intorno ai tavoli. La signora con i capelli sciolti sulla schiena stava ancora dando mostra del suo talento, stretta a un cavaliere alto e giovane che l’accompagnava in uno scambio delicato di corpi che era dannatamente per pochi. “Non si scandalizzi, è suo figlio” disse la donna di fronte a me. La guardai deluso, senza ribattere. “Ho detto che è suo figlio. E insieme sono due ballerini fantastici.”

“Già, me ne sono accorto…” indicai la chitarra che tenevo in pugno, nella mano destra “… questa invece credo sia del suo bambino. È inciampato poco lontano da qui, le è caduta, poi deve essersi spaventato e l’ha abbandonata. Meno male…”

“George non è mio figlio.”

“Ah mi scusi, credevo che…”

Allungò la mano per prendersi la chitarra, ma io ritrassi la mia tirando lo strumento verso di me: “E allora chi è lei se non la madre di quel bambino?”

“Diciamo un’amica. Sono qua in giro con la madre vera del piccolo e mi occupo di lui quando lei non può farlo personalmente.”

“Capisco. E chi è che suona questa bellissima chitarra, lei o George?”

“Io gli sto insegnando a pizzicare le corde e devo dire che ci sa fare eccome: impara in fretta.”

“Quindi, se ho capito bene, è lei che suona?”

“No, ha capito male, io sono un’insegnante di musica e conosco giusto qualche accordo…”

Insistetti perché mi facesse sentire qualcosa, ma non mi ascoltò neppure. Il piccolo George ci guardava seduto a un tavolo poco distante. Lo chiamò la donna e lui ci raggiunse tenendo il capo rivolto a terra. Nella stessa posizione del pomeriggio quando mi ero avvicinato a lui in riva al mare.

“George non fare il timido come sempre e ringrazia questo signore che ci ha riportato la tua chitarra.”

Alzò la testa allora e mi guardò negli occhi: “Grazie signore di avermi riportato la chitarra.”

“Non devi ringraziarmi, sai, anzi spero di non essere stato io a spaventarti quando hai inciampato sul prato.” Appoggiai in terra lo strumento e il bambino si allungò per abbracciarlo come si abbraccia una persona che si ama.

“Sai una cosa amico mio…” disse la ragazza “… il signore vorrebbe tanto che tu suonassi qualcosa per lui. Che ne dici, ne avresti voglia di farci sentire un po’ di buona musica?”

“Sì, penso di averne voglia…” rispose.

“Puoi suonarci quello che vuoi George. Tutto tranne quelle tue strane canzoni che nessuno comprende. Le terrei buone per un’altra occasione, che dici?”

Non rispose. Si caricò la chitarra sulle spalle muovendosi verso la staccionata che divideva il prato dalla spiaggia. La donna lo seguì, si sedette sulla sabbia e mi invitò a fare la stessa cosa. George impugnò la chitarra e cominciò a suonare un vecchio motivo di Ozzie Nelson che io avrei sentito cantare anni dopo da Nat King Cole. Si chiamava Dream a Little Dream of Me. George suonava provando a non saltare gli accordi e la donna seduta vicino a me cercava di intonarne la melodia senza riuscire a prendere una nota. Finirono in fretta, buon dio, e io mi scorticai le mani in un lungo applauso. Poi il piccolo disse qualcosa che ricordo bene ancora oggi benché siano trascorsi più o meno settanta anni da quella sera: “Prima tu mi guardavi in spiaggia mentre io stavo ripetendo a memoria le mie canzoni…” Lasciò andare la mano sinistra in quel suo gesto strano che gli avevo visto fare al pomeriggio. La simulazione di una sequenza di accordi suonati sopra una tastiera immaginaria.

“No George, avevamo un patto io e te…” lo interruppe la donna “… vada per la chitarra, ma non le tue canzoni…”

“Perché non può suonare le sue canzoni?” chiesi.

“Perché le mie canzoni andranno bene fra quindici anni, ma non adesso…” intervenne il bambino.

“E chi ti ha detto questa idiozia George?” domandò a muso duro lei.

“Mia mamma. E mia mamma ha sempre ragione.”

“A questo punto voglio sentire una di quelle tue canzoni George, sono davvero curioso…” lo dissi guardando la ragazza con un sorriso che m’inventai al momento.

“Ti suono questa, ascolta bene” non le dette modo lui, con la faccia che implorava una tregua, di controbattere. Lo aiutai a poggiare a terra la chitarra, tirò fuori dalle tasche dei calzoni corti qualcosa che assomigliava a una penna e impugnò di nuovo il manico con il mio aiuto. Grattò le corde in malo modo pronunciando parole delicate: “Something in the way she moves Attracts me like no other lover Something in the way she woos me I don’t want to leave her now…” Si fermò George. Guardò un attimo la donna al mio fianco e riprese a cantare la sua canzone. Anch’io la fissai in viso, ma apparteneva a un mondo che non era il mio. Scosse la testa schifata da quel miscuglio di musica e frasi che evaporarono subito in aria, mentre io incoraggiai George battendo a tempo le mani sul petto. Battevo le mani e lui suonava la sua canzone. Il mare si allargò davanti a me prima di lanciarsi una volta ancora contro la scogliera che adesso si era avvicinata alla terra.

Lo stesso giorno che uscì Abbey Road, ventuno anni più tardi da quella domenica del ’48 trascorsa su una delle spiagge fuori della mia città, ne acquistai una copia. Avevo sempre fatto così, comperavo i loro dischi il giorno stesso della pubblicazione. Penso che certi appuntamenti importanti non debbano essere rimandati neppure di poche ore. Attendere sarebbe stupido. Attendere alle volte vuol dire buttare nel cesso quel poco di presente che è l’unico tempo che davvero ci sta a cuore. Passato e futuro sono niente più che figure animate. Attendere di acquistare un loro disco era una di quelle cose che consideravo stupide. Come ogni volta, avevo iniziato ad ascoltarne le tracce cominciando dall’ultima del lato B risalendo a ritroso con la puntina fino alla prima canzone dell’altra faccia. Ascoltai Something alla fine dunque, e rimasi immobile a guardare la parete di fronte a me sino all’ultima nota. Non avevo più rivisto il bambino della spiaggia nella mia vita, e non avevo mai neppure immaginato chi fosse diventato negli anni a venire. Avevo però ancora in testa quella sua accozzaglia di parole delicate e musica senza senso. Ascoltai la sua canzone in piedi davanti al giradischi, con i polmoni che mi si riempivano d’aria fino a esplodere. Poi lasciai andare un respiro profondo, mi asciugai il sudore dalla fronte e riposizionai la testina all’inizio del disco sedendomi per terra. Vagheggiai così una storia fantastica. Vidi la mia vita di vecchio cominciare dagli inizi, solo che il tempo correva nella direzione opposta come facevano di solito i miei dischi. Come in quel racconto di Benjamin Button. Nella mia storia, il piccolo George, su un letto di sabbia in riva al mare, abbassava la testa e suonava un fraseggio che non avevo mai sentito, e mentre la sua mano di artista consumato scivolava abile sulla tastiera, mi parlava di quando, giovanissimo, aveva conosciuto un tipo che picchiava la sua penna su una chitarra da schifo, eppure aveva dietro i ragazzi più tosti di Quarry. “Volli anch’io andarmene in giro a suonare e far casino con quelle teste di cazzo…” disse prima di interrompersi e alzare il volto al cielo. “Ero il più piccolo di tutti, è vero…” continuò “… ma la mia chitarra non era una chitarra da schifo. La mia chitarra suonava mentre me ne stavo in silenzio ad ascoltarli. La mia chitarra ha inventato melodie sui giri dei loro accordi fin dal primo giorno.” Il piccolo George si lasciò andare a un sorriso stanco, lo stesso che gli avevo visto sfoggiare in tutte quelle foto assieme agli altri. I suoi occhi, dentro a quel sorriso, presero il colore di un mare in tempesta.

segue: Intermezzo sei

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