
Cominciava un certo trambusto nei corridoi del reparto, fuori dalla nostra camera. Pensai al cambio del turno. Non avrei rivisto la signora coi missili MILAN al posto delle tette e forse neanche il medico tutto baffi e brufoli. Guardai l’ora. Erano soltanto le sei del mattino. Strano a dirsi ma non mi sentivo per niente stanco. Come se il mio corpo avesse riposato dentro un letto caldo mentre imperterrito continuavo a raccontare e raccontare ancora, inventandomi storie che mia figlia non la finiva più di ingurgitare. E le mie storie parevano mescolarsi al suo sangue insieme agli antibiotici e alla tachipirina producendo effetti salvifici, tenendo perfino a bada la febbre. Scoprire i suoi occhi verdi così attenti, assistere alle sue smorfie nel corso di una notte che filò via veloce come una scena di Ridolini, usarle un tono di voce via via più pacato e sereno e rimanere attaccato al suo sguardo senza il timore di non arrivare a niente, tutto ciò mi fece sentire un leone fiero, padrone di me e del mio regno. Il leone che non ero stato mai.
“Babbo…”, conoscevo bene quel suo stile personalissimo di lasciare in sospeso un pensiero dopo che aveva cominciato a dirmi qualcosa. Non ho mai saputo se per colpa di altri pensieri che andavano sovrapponendosi nella sua testa con la forza di gravità di una stella gigante, o per una sorta di strano puntiglio che le era utile nel mettere a fuoco un dettaglio cercando disperatamente di fissarlo alla parola giusta. Io rispondevo a quel suo invito sempre nello stesso modo: “Dimmi…”
“Una volta, tanti anni fa, mamma mi confidò una cosa che ti riguarda e che mi torna adesso alla mente, nitida, lucente direi, e credo pure vera nel profondo.”
Alzai la testa e la guardai negli occhi.
Non si fermò: “Disse che il tuo desiderio più grande è sempre stato quello di invecchiare in fretta. Era la tua maniera di prendere le cose. Una sorta di stanchezza d’animo che ti portavi addosso come una seconda pelle, oppure chissà, un salvacondotto originale che ti sei concesso per saltare certi traguardi volanti della vita credendo di non doverne dar conto a nessuno. A te stesso per primo.”
Mi strofinai il viso col palmo delle mani, avevo due spigoli vivi al posto degli zigomi. Una porta sbatté forte da qualche parte, la interruppi: “Questo sentirmi vecchio fin dalle prime stagioni vissute è soltanto l’effetto di tutto l’ibuprofene che ho ingoiato contro il dolore della morte, credimi.”
Fece finta di non ascoltarmi: “C’era un’altra cosa però che si frapponeva come un grande ostacolo a questo tuo modo di stare al mondo, sosteneva la mamma. Il tuo ostinato viso di ragazzo e questo fisico patito che hanno continuato a toglierti anni dacché hai smesso di esserlo. Un ragazzo intendo.”
In quel momento, nel corridoio fuori della camera qualcuno accese una radio che suonava una samba. Altri presero a fischiare con una trombetta, altri ancora risero in preda a una felicità che non ti aspetti in un posto del genere. Lei non parve accorgersene e non smise di parlare. La febbre era scomparsa ormai e sentii lo slancio della sua voce invadere d’impeto l’aria. “Tocca a me, babbo. Ti racconto io l’ultima storia, prima che il sole si affacci dietro la finestra e il carnevale impazzi anche qui, dentro alla nostra camera di ospedale.”
Il carnevale. Erano gli ultimi giorni. Forse l’ultimo. Quello che chiamano martedì grasso. Ho sempre odiato i costumi, fin da bambino. E con i costumi qualunque genere di travestimento. Una volta al liceo finsi di essere un soldato. Indossai un cappotto verde e il cappello con le piume che era stato di mio padre. Mi sentivo il bersagliere più sfigato del reggimento scolastico. Ho trascorso ogni giorno del carnevale quanto più lontano possibile dal mondo per la paura sfacciata di ritrovarmi, anche solo per sbaglio, dentro a qualche sballo triste di uomini e donne mascherati. Le mie ascelle presero a ribellarsi e a dipingermi la maglia di scuro. Un attimo prima che lei cominciasse il suo racconto.
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segue: Storia breve del casino che ho dentro al frigo