Dieci piccoli indiani

Dieci piccoli indiani. E non rimase nessuno.
Agatha Christie, 1939

Poteva fermarsi al primo finale Agatha Christie, la storia sarebbe stata buona comunque. Non le è bastato però, ha inteso aggiungere il capitolo degli indagatori che brancolano nel buio con il sol merito di sbattere al buio anche noi lettori oramai a un passo dall’appagamento. La sedia di Vera non è più là dove l’avevamo lasciata qualche pagina addietro e sorprendiamo noi stessi costretti di nuovo ad avanzare a tentoni. Non consuma la Christie però tutto il suo talento in un colpo solo: ha scritto da capo la vicenda in quell’ultimo finale, addossando il piano alla figura la cui morale nobile ed incorrotta sa mantenersi intatta fino alla fine. La figura che avremmo pensato colpevole da subito senza crederci neanche un po’. Che non vorremmo incrociare neanche per errore in nessun angolo di stanza o corridoio. La figura ultima che alla fine è colpevole sempre, in capo a tutti gli altri. Anche se tutti gli altri, che in buona parte governa, lo ignorano. La Christie no! È abile e furba. Tira i fili della storia e gioca a scartino. Strappa la maschera dal volto dell’omicida appena in tempo e ci regala la sua confessione postuma. Che non è ammissione di colpevolezza. Al contrario. Non sazio del destino che si è scelto in vita il carnefice vuole per sé anche la parte del boia, aggiudicandosi con sincera sfacciataggine il suo modo sublime di “genuflettersi nell’ora dell’addio.” C’è un abisso nell’animo umano da cui non si risale. Agatha Christie lo riconosce e ne svela un tratto senza che quasi ce ne accorgiamo, nella finta levità del suo capolavoro giallo.

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