Le favole di Rubber soul. Norwegian wood. Legno norvegese.

“Non lasciare che la corrente ti trascini melmosa fino al mare. Quel po’ di libertà interiore e coraggio ti aiuteranno a risalire il fiume. Intanto puoi sorridere ragazza e credere che domani Lennon tornerà a trovarti.”

Norwegian Wood (Legno norvegese)

“Una volta avevo una ragazza o forse è giusto dire che lei aveva me. Mi mostrò la sua stanza, dicendo: ‘Non è buono il legno norvegese?’ Mi chiese di restare e di sedermi da qualche parte. Ma guardai intorno e notai che non c’era neanche una sedia. Mi sdraiai su un tappeto dunque aspettando il mio momento, e bevvi il suo vino. Parlammo fino alle due di notte e poi lei disse ‘È ora di andare a letto.’ Mi disse anche che la mattina avrebbe dovuto lavorare, e incominciò a ridere. Ribattei che io la mattina non avrei dovuto lavorare, me ne andai così a dormire nel bagno. Quando mi svegliai ero solo, questo uccello era volato via. Così accesi un fuoco. Dissi tra me: ‘Non è buono il legno norvegese?’”

Rubber Soul, 1965, Lennon-McCartney

Mi chiamo come sempre mi sono chiamato. Solo che adesso faccio il turista. Sono un turista inglese, in giro come fanno gli inglesi ‒ non tutti gli inglesi certo ‒, nella terra che dispensa vino e carne di pregio in quantità. La terra dove gli etruschi da secoli coltivano ad arte le loro uve e ingrassano le loro vacche. Bevo Chianti di questi tempi e provo a togliermi un pensiero che mi porto appresso da cinquant’anni, forse più. Capita alle volte che questo mio cruccio prenda il sopravvento su tutto il resto, e da pensiero diventi supplizio. Allora devo darmi da fare e tentare di rimettere le cose a posto. Fino a oggi non ci sono riuscito e la colpa la divido a metà col destino, di più non so dire. Mi trovo a Empoli e sto entrando dentro uno di quegli scatoloni di cemento e ferro che chiamano centri commerciali. Ho parcheggiato sottoterra e sottoterra mi sono messo a cantare una canzone che mi piaceva un sacco quando ero giovane. One After 909. Un vecchio motivo, che nella mia testa non ha mai smesso di tornare, e tornare ancora. Mi sono imbarcato sull’attrezzo tapirulante lasciandomi trasportare ai piani superiori. I visi della gente sono buffi. Ogni faccia un universo. Le osservo queste facce, e provo ad attraversarle. Quando ne ho l’occasione provo ad attraversare tutti gli universi che mi stanno attorno. Sono incerto se mangiarmi un toast, bermi un macchiato o andare dritto a cercare quello che sto cercando. Prendo un frappè alla fragola – mi piacciono le fragole, sono dannatamente e infinitamente buone –, chiedo al ragazzo del bar se nei paraggi esista un fai da te. Per questo sono venuto. “Sì, abbiamo un fai da te: proprio alle sue spalle, signore” risponde il giovane. Mi volto e vedo una scritta arancione di tre lettere che sa di tedesco. Conosco poco il tedesco, l’italiano lo capisco e lo parlo a malapena, giusto per comunicare gli stessi tre quattro concetti di sempre al portiere dell’albergo e al cameriere. L’insegna tedesca del fai da te pare più un sostantivo inglese abortito, mutilato della acca e della doppia. Una chiavica ortografica, un buonprò quasi. Pago e mi avvio verso l’insegna arancione. La tizia che mi scruta dietro al banco delle informazioni ha la faccia intelligente, meglio che non mi fermi da lei, il rischio è di perdersi in un gorgo tremendo di risposte incomprensibili a domande complicate. Oltrepasso il cancelletto, mi infilo dentro a corridoi stretti, in mezzo a pareti che soffocano. Attraverso colline di lampadine a led e liquido lavavetri, staccionate di trapani, tagliasiepi e motoseghe. Poi, come per magia, arrivo davanti a una balaustra di cessi e bidet. Porca troia (I need somebody, Help!…), non avevo mai fatto caso a quante accozzaglie di ogni genere e stile si ammucchino in questi empori di nuovo secolo. Un uomo neanche troppo giovane si avvicina e mi chiede se ho bisogno di qualcosa. Guardo il cesso davanti a me, esposto come fosse un’opera di Andy Wharol, e mi viene quasi voglia di cagare. Rispondo all’uomo non più tanto giovane che sì, ho bisogno di qualcosa: la mia vena. Vorrei tanto avere indietro la mia vena. Ma lui non può fare nulla, e nessun altro può. Mi prende sul serio l’uomo del fai da te, pronuncia due, tre parole piano. Non coglie il senso. Sostiene che loro non vendono quel genere di cose. Mi viene il dubbio, ma solo per un attimo, che sia io lo stolto. Insiste: “L’avena può trovarla forse al negozio di alimentari dall’altra parte del centro, ma non so…” Lo guardo divertito adesso, e mi domando se non sia lui la persona che possa davvero aiutarmi a risolvere l’annoso problema per cui mi trovo in questa grande bottega per disperati (come me). Sto cercando il reparto dedicato al legname. Mi indica la zona dove devo recarmi e magari trovare un collega esperto. Abbandono l’uomo non più tanto giovane che mi guarda come fa il mondo intero da una vita, abbandono lui e il mio cesso, inoltrandomi verso il centro del negozio. Non c’è molta gente in giro. I pochi ragazzi vestiti di arancione si muovono veloci tra i corridoi, spariscono e non compaiono più. Puoi chiamarli, puoi chiedere loro, e avere fortuna nel beccarne uno che ti risponda. Non è facile. E devi sperare che la fortuna non ti abbandoni sul più bello. Se ti capita quello sbagliato è possibile che ti ritrovi a pitturare i muri del bagno con la coppale (flatting, come lo chiamiamo noi inglesi) o peggio ancora con l’acqua ragia (come la chiamate voi italiani). Non sono tutti preparati questi ragazzi del fai da te. Una volta sentii un addetto alle vendite rivolgersi più o meno così a un cliente rompiballe: “Che cazzo ci vieni a fare dal fai da te (a proposito, quasi dimenticavo, do it yourself per noi inglesi) se poi te lo devo dire io come fare le cose?” Non aveva tutti i torti l’addetto alle vendite del fai da te, forse. Sono arrivato dalle parti giuste. Vedo enormi ammassi di lamellare d’abete o pino, e cataste di listone. Lunghi pacchi che formano una grande muraglia. Non basta alla mia causa. Devo chiedere la provenienza di tutta questa legna. Provo a cercare qualcuno, mi giro intorno, senza successo. “Posso aiutarla signore?” quasi cado a terra dalla paura. È sbucato a tradimento da un corridoio laterale il biondino occhi furbi, magro e nervoso, a tagliarmi la strada di proposito, chissà. “Sta cercando qualcosa in particolare signore?” insiste. Come no, certo che sto cercando qualcosa, penso. Ed è veramente qualcosa di particolare. Non apro bocca perché ho il timore che parlando sprechi la mia grande occasione. Sospetto che il biondino non riuscirà a comprendere esattamente ciò di cui ho bisogno. Non posso usare il linguaggio che uso col benzinaio o col portiere di notte. Servono precisione e rigore adesso. Mi rivolgo a lui in inglese. Non capisce una parola. Lo intuisco ancora prima di pronunciare “you” di “Do you speak engl…” Scuote la testa, il biondino, e mi fa un cenno. Credo intenda dirmi di attendere. Quanti anni sono che aspetto? Sparisce da qualche parte ma sento che non mi sta abbandonando. Torno a essere solo, faccio pochi passi, mi avvicino a piramidi di barattoli di vernice, pennelli e rotoli di nastro carta. Chèope, Chèfren, Nicherino. E le vernici del fai da te di Empoli. Dallo spazio puoi vedere tutto ciò a occhio nudo. Sono stato ovunque nella mia vita. Nello spazio non ci arriverò con gli occhi nudi. Con gli occhi chiusi semmai. Come tutti del resto. Questa però è un’altra storia. Trascorro più di qualche minuto ad aspettare il biondino, che alla fine torna con una ragazza giovane e carina. L’interprete. Porta lenti nere, lei, mi sorride, mentre l’altro le spiega qualcosa in uno slang per me incomprensibile. Si guardano adesso, e la ragazza fa cenno di sì con la testa. Poi si volta di nuovo verso di me, squadrandomi con i suoi occhi che non scorgo oltre le lenti, e con quegli stessi occhi la sento lanciarmi frecce appuntite. Il suo sguardo è tutt’uno con le sue guance, la sua bocca, il suo corpo. Silenzio. Non so quanto silenzio stia trascorrendo tra noi, la sua voce poi mi invita in un mondo che non conosco.

“Buongiorno signore, come posso aiutarla?” gli chiesi.

“Ciao, dovrei comprare del legno da arredamento…”

“Certo signore, di che cosa ha bisogno esattamente, che genere di legno…?” Si avvicinò ancora di più e a quel punto non potei fare a meno di sorridere un po’ stupita del suo inconfondibile volto, a me così familiare: “Chissà quante persone le avranno detto, signore, che lei assomiglia in modo incredibile…” Non vedevo la sua faccia. Neppure le mie lenti da trentadue diottrie me l’avrebbero permesso. La sua faccia era nella sua voce.

“Si, l’ho già sentita questa frase a dire il vero…” mi interruppe “… solo che è una sciocchezza, perché io non assomiglio a nessuno. Io sono lui, quello vero, l’originale, il solo che ha questo viso. A parte ovviamente tutti quei balordi che se ne vanno in giro a suonare per taverne truccandosi da quattro idioti in versione faccia di merda fotografata dal fondo di una tromba delle scale…”

Simpatico il tizio, forte davvero, pensai, mentre continuavo ad ammirare quell’incredibile somiglianza.

“Stavo dicendo che avrei bisogno di un bel po’ di legname, genere vario, devo arredare una stanza” insistette.

Continuai a fissarlo completamente attonita, ed ebbi un brivido, il cuore accelerò il suo battito d’improvviso e per un istante credetti di svenire. Perché la percezione che lui fosse davvero Lui si tramutò in certezza. Non mi prendeva in giro l’uomo davanti a me, stava recitando forse, ma la sua scena apparteneva a un teatro che era tutt’uno con la vita reale. Stava interpretando se stesso insomma. Poi riprese a parlare: “Hai presente quella storia che ti ho raccontato non ricordo più quanti anni fa…?”

“Quale storia?” chiesi. Conoscevo già la sua risposta, così come lui sapeva bene quanto fosse inutile la mia domanda. Rimanemmo a fissarci nei nostri occhi miopi altro tempo ancora, fino al momento in cui l’interfono smise di suonare il suo stupido jingle, le luci tremarono, e il mio esofago fece tre piroette. Poi tutto tornò come prima.

“Devo ricostruirla quella stanza, perché il fuoco ha distrutto tutto…” mi disse “… e devo rifarla esattamente come una volta. Aiutami quindi, dimmi che qui, nel tuo negozio, vendete esattamente quello che sto cercando…”

Mi voltai verso Carlo che aveva incominciato a spostare listone e parquet senza avere capito una sillaba di quello che ci eravamo detti (ma io ero sicura di avere capito qualcosa?): “Carlo, dobbiamo assolutamente trovare del legno norvegese per questo signore…”

“Legno norvegese?! Dove lo andiamo a cercare il legno norvegese?”

“Il legno che vendiamo da dove arriva, lo sai?”

“Ma come faccio io a sapere da dove arriva tutto il legno che vendiamo?! È probabilmente legno dei paesi nordici, ma se di Norvegia, Svezia o Islanda non posso dirtelo.”

“Dobbiamo informarci, a tutti i costi, chiamiamo qualcuno che sappia dove acquistiamo il nostro legno…”

Mi interruppe: “Mi spieghi che cosa cazzo ti frega di conoscere la proven…” L’uomo di fronte a noi non gli fece finire la frase e con voce rotta lo pregò di ascoltarmi. Carlo intuì che la situazione fosse davvero seria: “Ok mi informo, datemi solo una manciata di minuti. So io cosa devo fare.” Scomparve in direzione del box informazioni. “È andato a telefonare a qualcuno in grado di darci una risposta certa. Vediamo se riusciamo a risolvere la questione” dissi.

“Lei vuole ricostruirla esattamente com’era, mi capisci vero?” mi chiese piano con un accenno di disperazione dipinto sulle labbra.

La storia più assurda del mondo. Un viaggio fantastico a metà strada tra Alice nel Paese delle Meraviglie e Lucy in the Sky with Diamonds. Gli feci un cenno con la testa. Sì, avevo compreso, e avremmo risolto tutto grazie a Carlo e alla risposta che in quel momento stava cercando. Ho sempre avuto grande fiducia nel mio amico (ancor prima che collega) e sapevo che non si sarebbe fermato prima di averla trovata, la nostra risposta. L’unica che attendevamo io e il tizio che avevo davanti. Chiunque egli fosse realmente. Legno norvegese. Non avevo bisogno di nient’altro. Non c’erano parole adatte a spiegare la mia vita di giovane donna sulla linea di un confine ancora tutto da esplorare. Me ne stavo in silenzio ad aspettare che la linea si avvicinasse. Ma non era così. Mi resi conto che in certe occasioni non puoi aspettare niente e nessuno, che il tempo è buono soltanto per le conquiste. Di ogni specie e natura. Grandi piccole senza senso imponderabili. Oltre ogni linea di confine c’è sempre un nuovo spazio da fare nostro. Allora spettava a me. Perché l’uomo di fronte non mi stava regalando nulla. Avrebbe provato a raccontarmi altro forse; spettava a me a ogni buon conto afferrare il senso di tutto ciò. Ci guardammo a lungo, in silenzio, Carlo sarebbe tornato prima o poi.

Tu sei la prima persona al mondo che mi ha riconosciuto. Non c’è mai stato nessuno prima di te. A partire da quell’otto dicembre di tanti anni fa. Credimi, non ho fatto granché per nascondermi. Me ne sono andato in giro senza preoccuparmi di coprire il mio volto con cappelli, foulard, colli alti. Non ho usato cappelli e foulard, io. Eppure la gente non ha voluto scoprirmi. Penso che la gente faccia di tutto per rimanere all’oscuro. Alla gente non importa se c’è o no una verità diversa da quella che le hanno raccontato. Me ne sono andato a spasso con il mio volto, ovunque. Certo, lo so, sono invecchiato molto, dentro e fuori. Porto jeans e camicia bianca da decenni. Il nodo della cravatta l’ho sciolto in una notte del ’66, sopra un aereo, di ritorno dall’America, quando capii ‒ e a dire il vero non fui il solo a capire quella volta ‒ che un pezzo di vita stava finendo, e non ci sarebbe stata più occasione di indossare giacche strette e senza colletto. Stop alle giacche e alle cravatte, e con loro stop a un mondo che ci stava divorando. Giovane e bellissima ragazza, tu sai chi sono. I tuoi occhi infinitamente miopi non tradiscono. Non l’hai scoperto guardandomi. Altri milioni di occhi mi hanno fissato stupiti prima dei tuoi, senza capire. Tu invece hai capito, di sorpresa, in un attimo, tutto quanto, e io non so come. Il mondo mi ha visto morire in una sera di inverno, fuori dalla mia casa di New York. Solo che non ero io. Uno sfigato con la mia maschera sul volto è venuto nella strada dove abitavo a fare foto da spedire ai suoi amici lontani. “Ehi, guardate chi ho visto a New York! Ho anche parlato con lui. Mi ha raccontato un po’ di cose dei tempi andati…” Pam! Si è preso la pallottola di Chapman, l’altro sfigato che quella stessa sera era lì ad aspettarmi davanti all’ingresso mentre io me ne stavo di sopra, steso sul mio divano ad ascoltare in cuffia Chet Atkins. Qualcuno ha visto la scena e il passaparola ha fatto il resto. Il mondo, nel giro di tre, quattro ore al massimo, era pronto al mio addio. Io ho assistito al rito funebre dal fondo di un cortile e non mi sono preoccupato di aggiungere nulla. Ho lasciato che gli uomini si inventassero una storia fantastica e ho continuato a vivere. Fino al punto in cui è diventato impossibile tornare indietro e dire: “Ehi sentite, avete preso un abbaglio, e io ci sto sguazzando beato nel vostro abbaglio collettivo. Io non ero io. Sono vivo, non canto e non suono più, ma sono vivo. Non scrivo più, certo, perché la vena si è esaurita, ma sono vivo. Sono un marito, un padre, sono lo scemo del villaggio, sono un sacco di altre cose. Sono uno a cui piace Chet Atkins. E Tracy Chapman anche (nonostante il cognome). Mi facevano impazzire i Nirvana. Genio puro. Peccato sia morto Cobain. Porca troia, mi chiedo perché siano sempre i migliori ad andarsene per primi. Sono un tizio che è pure rimasto attaccato a qualche antico vezzo. Il vezzo di cui non mi sono mai liberato è la ragazza che mi invitò quella sera a casa sua, e io, solo perché ero giovane e stupido, l’ho ripagata distruggendo tutto col fuoco. Finché non avrò trovato questa cazzo di cosa non avrò pace. Legno norvegese. Gliela ricostruirò con le mie mani, la sua fottutissima camera. Ci guardiamo in silenzio, a lungo, io e te, bellissima ragazza dagli occhi nascosti dentro lenti troppo scure. Il tuo amico biondino chissà se tornerà. Come hai fatto a scoprirmi, mi chiedo? Spero davvero che non sia una di quelle domande che non ammettono neppure una traccia di risposta. Non so se ci sarà occasione per nuove incredibili scoperte. Non sono più abituato alle sorprese forti. Ci ho rinunciato, da molto tempo. E, come ho già detto, non è possibile tornare indietro quando ti sei lasciato alle spalle un bel pezzo di strada. Il biondino occhi furbi arriva di gran corsa dal corridoio dove era sparito qualche minuto prima. Sventola in aria dei fogli e urla qualcosa nel suo slang incomprensibile. Poi la ragazza gli salta al collo e anche lei incomincia a urlare. Non so perché, loro urlano come pazzi, e io ho voglia di piangere. Non smettono di berciare i due, e continuano a rimanere abbracciati. La ragazza alla fine si stacca dalla sua presa ed è lei che comincia a piangere. Arriva sempre un attimo prima di me la ragazza nascosta dietro lenti troppo scure. Il biondino mi guarda, poi si rivolge ancora a lei. Capisco qualcosa: “Ehi ciccia, questo qui io l’ho già visto da qualche parte, non è una faccia nuova. Maremma maiala, ci sono, assomiglia in modo incredibile a…”

“Si, gliel’ho già detto Carlo, poco fa, ma si è incazzato di brutto, mi ha quasi trattato male perché è stanco di questa storia che gli ripetono tutti ogni volta.”

“Ok, capisco…” smette di parlare il ragazzo. Poi lei si avvicina sussurrandomi nell’orecchio che tutto il legno che abbiamo davanti – enormi cataste di legno per ogni evenienza – proviene dalla zona di Alesund nel sud ovest della Norvegia. Il suo amico ha stampato anche la certificazione che il distributore italiano ha spedito via mail. Do un’occhiata, non me ne frega niente dei documenti, faccio finta di leggere. Sono certo di aver trovato quello che sto cercando da una vita, non ho bisogno di certificati. Soltanto qui, oggi, e soltanto la ragazza dagli occhi miopi avrebbe potuto farmi un regalo così grande. Legno norvegese. Mi tocca una mano fissando con le sue lenti scure qualcosa di lontano, senza dire una parola. Poi alza lo sguardo su di me la ragazza, e la sua voce flebile si fa largo nei miei polmoni. La respiro.

Sai, io non sono mai stata tua fan (anche per questo, con me, che ti ho scoperto, non corri alcun rischio). Io sono, e resterò nei secoli, sostenitrice accanita di tutti e quattro. È una cosa diversa, certo. I quattro continueranno a esserci sempre. I quattro suonano e cantano da sempre nel mio soggiorno, e nella mia testa quando non ho il mio soggiorno e neanche l’mp3 a portata di mano. Ho ascoltato le vostre canzoni, le ho scomposte e ricomposte, come fossero un Lego. Ho imparato le vostre musiche, ho mandato a memoria le vostre parole; ho dato la caccia a ogni singola sfumatura negli arrangiamenti. E non finisce mai. Perché ogni volta faccio scoperte sconvolgenti, e quando ascolto musica di qualcuno che con voi quattro pare non entrarci niente, io vi trovo di nuovo. Zeppelin, Jefferson Airplane, Floyd, Mötley Crüe, io vi trovo sempre. E come sempre, torno al mio soggiorno. Scoprire YouTube poi è stato come scoprire un forziere con dentro un milione di doppi fondi. Monete d’oro, e poi ancora monete. Anche se molto di quel tesoro già mi apparteneva. Ho un padre dolcissimo che ogni anno mi accompagna in giro, dove scelgo di andare. Le ferie dal lavoro, io e mio padre, le abbiamo trascorse tra il Cavern e lo Shea Stadium, sul Mersey, in Penny Lane, ad Abbey Road e a Strawberry, in un milione di altri luoghi che potrei descriverti. Abbiamo respirato gli odori, scorto ombre, ascoltato suoni vecchi e nuovi, e voci che avevano storie incredibili da raccontarci. Un giorno attaccammo bottone con una vecchia signora a una fermata del bus nel centro di Liverpool. Una tipa completamente andata, svitata, fusa, bollita di cervello. Il timbro vocale era sincero però. Abbiamo un certo talento nel decifrare i timbri vocali, noi miopi, è un dato di fatto. Insomma, viaggiammo sul bus per un bel po’ insieme alla signora e le raccontai del mio lavoro. Le parlai di tutte le cose strane che si vendono nel mio negozio. Mi chiese se per caso avessimo anche legno norvegese. Poi fu lei a raccontarmi qualcosa della sua vita. La sua famiglia, il vecchio lavoro di impiegata alle poste e i giorni lontani di una Liverpool al centro del mondo, quando, partendo proprio da lì, dai suoi quartieri, il beat si apprestava a invaderlo il mondo. Mi raccontò di un ragazzo, senza pronunciarne mai il nome, carino e un po’ scemo, che lei una sera invitò a casa e che alla fine spedì a dormire nella vasca da bagno. Tirò fuori una foto di lei, giovane e bellissima donna, abbracciata a un tizio che conoscevamo tutti parecchio bene. Naturalmente io non vidi quella foto. Fu mio padre a dirmi che eri tu il tizio abbracciato alla signora svitata. Legno norvegese. La parte più incredibile della storia me la raccontò alla fine, un attimo prima di scendere dal bus. Il tizio si era ripresentato a casa sua, qualche anno addietro, per scusarsi, e per ripagare tutto quanto. Anzi, il tizio, mi disse la signora svitata, era pronto a ricostruirla con le sue mani la camera da letto. Esattamente come era in origine. L’uomo eri tu, certo. La signora sapeva di non sbagliarsi, anche se nessuno avrebbe creduto mai alla storia folle di una vecchia svitata. E adesso sei venuto qui, a Empoli, nel mio negozio, per comperare quel legno così importante alla tua causa…

Non ho risposte e spiegazioni sufficienti a risolvere nessuno dei grandi quesiti che la vita ci mette di fronte. Non ho trascorso un minuto del mio tempo in pace con me stesso e neanche ho mai posseduto la pazienza necessaria a indagarmi, capire che cosa, in ogni singolo momento, avrebbe potuto, e potrebbe ancora oggi, rendermi una persona fiera e carica di orgoglio. Non so il motivo per cui mi trovi qui adesso a parlare delle mie pene con una sconosciuta. Forse il motivo sei proprio tu. Avrei potuto farmelo spedire il mio legno, avrei potuto acquistare tutto il legno norvegese che desideravo direttamente alla fonte. Penso che potrei permettermi di comperare un terzo delle foreste scandinave. Non avrei trovato due occhi miopi dentro lenti scure disposti a credere alla mia storia però. Solo di questo avevo bisogno, forse. “All I need isn’t love today, but simply two beautiful eyes…”

Intonò l’incipit della Marsigliese e io esplosi in una risata che mi tolse il fiato per non ricordo più quanto tempo. Pensasti una cosa giusta, amico mio. Non ti scovarono i miei occhi miopi e non furono loro che permisero quella sorta di miracolo. “Vuoi sapere perché io ti credo, e credo alla tua incredibile storia, perché, insomma, credo che tu sia veramente tu?” Un botto tremendo fece tremare tutto quanto e il cuore mi si staccò quasi dal petto. Il fulmine colpì il tetto dell’edificio proprio sopra di noi. Le luci si spensero e si riaccesero all’istante, gli allarmi presero a suonare in un frastuono assordante. La gente parve impazzire, qualcuno cadde a terra, Carlo mi trascinò via senza che potessi opporre resistenza. L’uomo di fronte a me fu travolto anche lui dalla ressa e dalle voci. Gli urlai contro qualcosa e dimenai le braccia nel tentativo di non perderlo. Tutto inutile. Non accadde niente di grave quel giorno, nessuno si fece male alla fine, solo un brutto temporale che aveva annunciato a gran voce il suo arrivo. Il tizio scomparve per sempre e a nulla valse la mia disperazione nel tentativo di ritrovarlo una volta tornata la calma. Non accadde nulla di speciale quel giorno. Semplicemente un uomo davvero strano era venuto a chiedermi se per caso avessi un po’ di legno norvegese in serbo per lui. Tutto qua.

P.S. Se vi capita un giorno di fermare l’auto nel parcheggio sotterraneo del centro commerciale di Empoli, troverete una scritta in inglese su una delle pareti vicino all’uscita. Vernice spray dura da cancellare, roba buona, che vendiamo anche noi del fai da te. La sera prima del grande temporale, assicurano i vigilantes, non c’erano scritte sul muro alla fine del parcheggio. E giuro, io non c’entro niente. Tradussi più o meno così a Carlo che mi chiedeva il significato di quelle strane parole: “… Puoi sorridere ragazza, e credere che domani Lennon tornerà a trovarti.”

segue: Intermezzo otto

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