L’ultimo saluto

Sono seduto vicino a Simone e dal mio posto non riesco a vederlo in faccia. Siamo soli nella stanza da qualche minuto, in un silenzio opaco, farinoso, contaminato da un’aria che si lascia respirare a tratti. Alzo lo sguardo al quadro sopra la sua testa. Una casa regale di collina è immersa nella penombra del suo fondovalle di qua da una linea scura di montagne senza un colore preciso. La parete grande trattiene a stento l’imbrunire di quella campagna che pare allargarsi intorno traboccandoci addosso. È da un bel po’ di tempo che Simone ha smesso di parlarmi. Per questo avevo imparato a seguire i suoi occhi su lettere segnate sopra una lavagna trasparente. Fino a che non era diventato uno scontro all’arma bianca. Sillaba su sillaba, parola contro parola, alla conquista di un pensiero trattenuto dal quel suo guardare stanco che mi si chiudeva innanzi, alla fine di una fatica immane per non essere arrivati a niente. Ma non era dato arrendersi. E allora di nuovo con le stesse lettere da scoprire e cucire a un’idea qualunque. Qualunque idea fosse, anche la più grande, che significava spostare il cuscino sotto le sue spalle in cerca di una tregua preziosa quanto l’attimo che era destinato a consumarla. Poi non sono più riuscito neppure a seguirne lo sguardo che è andato spegnendosi inseguendo una traccia sempre più flebile, al punto che dovevo inventarmela io stesso. Era stata Francesca con la sua forza di leonessa indomabile ad insegnarmi qualche trucco buono a superare lo stallo ed illudermi di aver solo intuito una sua richiesta. Sempre in nome dello stesso principio. Ché non era dato arrendersi. In nessun caso. Andavo a trovarlo più o meno una volta a settimana e rimanevo un po’ di tempo con lui provando a raccontargli del mondo fuori, oppure qualche dettaglio sulla giornata di campionato appena trascorsa. Era un grande tifoso della juve Simone, vero. Una cosa che non so perdonare a nessuno, tranne ai miei amici più cari. Da ultimo mi limitavo a guardare in sua compagnia qualche spezzone di film che sceglievo per entrambi pescando più o meno a caso nel calderone confuso di Netflix. Abbassavo il volume di tanto in tanto, tornavo a dire qualcosa, la prima stupidaggine che mi saltava alla mente, nel tentativo disperato di non perderne il contatto e immaginando la sua voce che mi rivelasse una reazione o un pensiero nascosto. Ma non ci sono riuscito. E così ho lasciato che il silenzio s’insinuasse tra me e lui, rinunciando anche solo a intuire le ragioni profonde di una scelta che gli imponeva di affrontare giorno dopo giorno, ora dopo ora, quel suo sforzo inumano di restare attaccato alla vita a costo di ogni singola e incessante sofferenza che doveva patire nel letto di cui era diventato prigioniero.
Adesso sono seduto in questa stanza vicino a lui che non indossa più quel suo pigiama azzurro, ma un abito grigio, bellissimo, e scarpe lucide per il suo nuovo viaggio.
“Non puoi rammaricarti adesso…“, mi dice,
“…sei fuori tempo massimo.”
Mi volto in direzione della porta, ma non c’è nessuno tranne noi due.
“È il mio cruccio solito. Io faccio scelte fuori tempo massimo. Da sempre.”, rispondo fissando il quadro sopra la sua testa.
“Coglione. E risolvilo allora questo tuo problema. Una volta per tutte. Rinunciare un attimo prima del dovuto non serve a nessuno. È vero, ti sei arreso con me, ed io ti ho servito l’occasione per farlo su un piatto d’argento. Colpa della mia incessante stanchezza, certo. Cosa avrei potuto di diverso? Io quel silenzio di cui tu parli non l’ho mai provato sulla mia pelle. Ho continuato a risponderti fino all’ultimo. E così ho fatto con tutti quelli che mi hanno voluto bene continuando a interrogarmi. Io non ti biasimo in nessun modo, e spero tu impari una buona volta la lezione. C’è sempre un modo di vivere e restare legati agli uomini e alle donne che segnano la nostra vita. C’è sempre un motivo valido per resistere e soffrire senza rinunciare al nostro profondo sentire sincero. Tutto qui. E non c’è bisogno di lavagne trasparenti per dircelo.”
Tossisco e rimango seduto al mio posto. La stanza s’inonda di un sapore nuovo. Il neon sopra di me vacilla e cambia colore. Prendo un respiro profondo e mi alzo. Faccio un passo nella sua direzione prima che altre parole mi blocchino: “Fermati dove sei…” mi dice ancora, “…così, da bravo. Ti dico un’ultima cosa adesso, che ti farà ridere. Ascoltavo attentamente sai, mentre mi raccontavi di Cristiano Ronaldo, smorzando quella tua sorta di avversione nei confronti della mia amatissima squadra.”
“Nessuna avversione…”, lo interrompo fingendo un sorriso.
“Ma smettila una buona volta. Non ti chiedo nulla io. Mi prendo solo la mia piccola grande rivincita.”
“Sarebbe a dire?”
“Vorrei urlarti contro ‘viola merda’, carissimo Alberto, ma non è il mio stile. Non lo è mai stato. Così te lo risparmio, con lo stesso sentimento di amicizia e tenerezza che mi hai serbato, senza dover fare sconti su questo. Mai.”

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