Leggere righe da un quaderno sconclusionato e ritirarsi a corpo estraneo come quando da bambino abitavo clandestino al centro di un intorno. L'improvvisata di una fitta, uno stare appeso ad un dolore cuneiforme, perverso, che si annida scagliandosi contro la sua origine di vertebra. Principio d'innominabile sostanza, forse.

La collina blu
L’uomo se ne stava appoggiato alla fiancata del pulmino e tirava boccate profonde da una cosa che non era più neanche un mozzicone. Giangia lo vide e sbuffò. Il puzzo del sigaro arrivava fino all’uscita del terminal, distante ottanta, novanta metri dal posteggio. Anche il viso dell’uomo non era più nemmeno un viso. Una ruga profonda e slabbrata che dal collo andava a finire sulla fronte alta, fino a perdersi sotto i capelli. Due baffi grossi, bianchi, come un batuffolo di cotone idrofilo, portati alla messicana, e una catena al collo con un medaglione che pareva un posacenere. Al centro del posacenere una falce e un martello incastonati e lucenti. Centoventi, centotrent’anni. Portati bene. Giangia lo scrutò da lontano. Pensò a un cartone animato. Tumbleweeds? Decise di avvicinarsi, il messicano aspettava lui. La distesa infinita di macchine si lasciava struggere dall’afa che impregnava l’aria rendendola nauseabonda. In fondo alla pista di atterraggio invece, oltre la recinzione di metallo, un Caterpillar si ribellava a un destino crudele, lottando disperato contro tonnellate di catrame bollente. Giangia arrivò di fronte all’uomo. “Agriturismo Collina blu?›” chiese. L’altro non rispose. Si staccò dalla fiancata del pulmino stirandosi la schiena e scoprendo sulla carrozzeria uno stemma campagnolo dai tratti falso-antico-nobiliari, con una scritta sbiadita, oramai illeggibile. Il portello si aprì di scatto e il vecchio salì a bordo. Giangia prese paura. Guardò il piazzale vuoto e poi decise che non poteva fare a meno di entrare anche lui. Appoggiò la sua pesante borsa di pelle sul primo seggiolino accanto al posto di guida e respirò a pieni polmoni. Respirò miliardi di sigari ancora accesi. Un frappè di tappezzeria, muffa, nicotina e tabacco.

“Intanto buongiorno…” esitò l’ospite. “La collina blu. Con l’articolo!” Gli occhi dell’uomo erano cerniere chiuse e arrugginite, e le mani attaccate al volante artigli di un rapace vecchio ma non domo: “Ascoltami amico, parlo adesso e poi non aprirò più bocca. E’ tutto ok, tutto eccetto la mia mancia. E quella me la devi. So che a noi italiani le mance non piacciono, ma io la pretendo lo stesso. E i soldi me li darai alla fine, decidi tu quanto, ma alla fine. Stabilirai la cifra una volta che saremo giunti a destinazione. Ci vorrà il tempo che ci vorrà. Il casolare è a 42 chilometri da qui, dobbiamo attraversare due tratti di lavori in superstrada, questa merda di superstrada…” Con un cenno del capo il messicano intimò a Giangia di sedersi dietro. Non era caldo. Peggio che morire affogati in un mare di lava. La palla di fuoco stagliata a metà cielo voleva rotolare nei campi, o in mezzo alla pista di atterraggio. Poi ci si mise anche il reattore di un Jumbo. Un vento che quasi ustionava li aggredì dalla portiera aperta e di colpo si fece buio. Giangia chiuse gli occhi un solo istante, perché quel buio inondato d’arancione tanto non lo avrebbe abbandonato. E allora era meglio guardare tutto quello che c’era da guardare, soffrendo le pene almeno fino allo spegnersi del giorno quando la luce d’agosto avrebbe colorato di viola l’aria e i bordi delle case. Giangia. Si era deciso e basta. Fino a pochi giorni prima era certo che non sarebbe più tornato. Ma la vita cambia corso in un attimo, e ti sorprende come un temporale nei mesi caldi, e decide per te. Decide che è meglio che torni, anche solo per un cenno. Un cenno lieve della testa. Giangia tornava in Toscana, la terra di sua madre. Ricordò il volto dolce di sua madre. Una volta soltanto, da ragazzo, era stato in Italia. Conosceva bene la lingua che aveva studiato per via dell’archeologia, la sua passione, il suo lavoro. Era tornato, ma non sapeva bene perché. Tutto quello che poteva fare adesso era starsene lì, appena fuori dall’aeroporto, seduto in un pulmino malconcio e sporco, a scacciare tempeste e domande che si perdevano nelle ragnatele della sua testa. Il tizio alla guida si voltò l’ultima volta, prima di accendere la radio e infilare la marcia. Non disse nulla, guardò di nuovo avanti alla fine e pigiò sull’acceleratore.

…nvenuti su living radio signori e signore, in compagnia di Alfio dj. Oggi musica all’amatriciana, e quando dico amatriciana, intendo sapore dolce, classico e sempre un po’ piccante. Se volete, da accompagnare a un buon rosso dei vostri colli preferiti…e dai regia, concedimi la metafora…no?! Perché dovete sapere che ogni volta, dal bancone dei comandi, qua di fronte a me, mi guardano strano… La voce sfumò. Living radio solo musica italiana… Sorrise, mentre si regalava un pensiero sciocco. Fatto novanta si poteva arrivare a cento. Anche il nome, la radio, poteva darselo italiano.
”In giardino il ciliegio è fiorito agli scoppi del nuovo sole, il quartiere si è presto riempito di neve di pioppi e di parole… “
La strada a quattro corsie. La prima sorpresa. Non c’erano strade così quando era venuto l’altra volta. La pista dell’aeroporto si incuneava a perpendicolo fino quasi a entrarci dentro, nella carreggiata. Sfiorava il guard-rail. Giangia vide quella specie di grossa barriera gialla chiedendosi come avrebbe, semmai, potuto fermare un jet lanciato nell’atterraggio. Poi pensò che forse non si trattava di una semplice barriera. Vide sfilare i vecchi C-130, e rimase a fissarli oltre il finestrino fino a che non furono alle sue spalle. Il mondo cambiava. Cambiava di continuo, lasciandoti in testa tracce tenui di un passato che potevi liberare solo rimestando in qualche angolo sperduto di memoria. Il mondo cambiava fuori, in fretta. Poche decine di metri bastarono a Giangia per non riconoscerlo più. Pisa nord-est lo fece ridere. “Ci sarà dunque un’uscita Pisa sud-ovest” pensò. Ma che voleva dire Pisa nord-est? Dove si arriva Pisa nord-est? Pisa nord-est non era l’uscita per la Piazza dei Miracoli. Era Pisa nord-est, un quartiere di mongoli, o di siberiani forse. Non era neanche questo Pisa nord-est. Sbuffò e tirò indietro la testa, poi sbarrò gli occhi verso l’alto per paura che il tetto di lamiera gli si rovesciasse sulla nuca senza neanche avere modo di accorgersene. Tossì forte, perché un catarro gli era andato di traverso. Tossì e il viso cominciò a prendergli fuoco. “Dovrebbe esserci dell’acqua in fondo. All’ultimo sedile sulla destra trovi un frigo, aprilo e vedi cos’è rimasto” gli urlò il messicano. Attese qualche minuto. Quando il respiro tornò a farsi normale si alzò appoggiandosi una mano alla gola. Poi andò in coda al furgone dove gli aveva indicato l’uomo al volante. Aprì il frigo e scelse una bottiglietta di acqua brillante. Svitò il tappo e ne bevve una sorsata. Si mise in ginocchioni sull’ultimo sedile rivolto verso la strada dietro. Come fanno i bambini festanti che dall’alto salutano le auto prima che sfilino via sul sorpasso. Rimase lì un po’ di tempo, con la faccia inebetita a non pensare a niente. Ma era difficile non pensare a niente. Le auto superavano e abbagliavano. Ma lui era troppo grande per rispondere ai saluti. Il pulmino. L’ultima fila. Lontano dai prof. Il gioco della bottiglia che era finito con i baci in libertà senza più bisogno della bottiglia. Si ricordò di Jane, la ragazza con gli occhiali Rayban e le lentiggini. Aveva provato a sfiorare le sue cosce Giangia, in quella gita di primo anno a Soho, ma lei non era convinta. Gli piaceva Jane. Gli piaceva quel tanto che bastava a sfiorarle le cosce dai Levis nuovi e stretti. Poi, due file più avanti qualcuno si era tolto le cuffie dagli orecchi e la voce di Battiato aveva interrotto il suo gioco mentre sfilavano sulle rive dell’Hudson. Dai ragazzi, un brano incredibile dalla Voce del padrone. Sempre Alfio in vostra compagnia, voglio sentirvi cantare fino alla Sicilia, insieme a Franco. Dove suonava le serenate Battiato, dove? Ditemelo voi! Giangia si voltò di scatto verso il corridoio del pulmino ma non vide niente, eccetto la testa lontana del messicano che guidava e fumava. Si toccò la guancia, passando il palmo della mano sulla barba lunga di parecchi giorni. Un Cayenne sfrecciò dalla corsia di destra, “dove andrai mai così incazzato con quella specie d’astronave anfibia…?”, il messicano rallentò di botto e offese senza ritegno l’uomo al volante del gippone e con lui maledisse l’universo e il suo creatore. Tornò al suo posto allora, ebbe un conato, pensò di sentirsi male. Un stretta in testa, e un capogiro. Poi un volo di uccelli lo portò su, fino al punto più alto. Dovette piegarsi in avanti per seguirlo ancora. Lo stormo si spaccò in due, e in tre. Alla fine gli occhi di Giangia finirono per rincorrere un esemplare solitario che scese a picco virando brusco verso l’interno. Nuvole dense di acqua scura s’incrociarono in un tuono secco e gonfio di minacce. Alfio intanto continuava a interrompere le canzoni a metà. …nuovi talenti nascono e si perdono in fretta, noi manteniamo la barra dritta e ci sentiamo questa bella canzone di un grande della musica d’autore, una canzone che parla di mare e stanche parabole di vecchi gabbiani. Sempre insieme ad Alfio dj… Pure di nuvole parlava la canzone. Di nuvole che dal cielo si buttano giù… Le guardò ancora quelle nuvole Giangia, in fondo. Gli prese di nuovo il capogiro. La coda bloccò il pulmino all’altezza di Navacchio. Si fermarono proprio davanti alla grande insegna dell’Ipercoop. Il messicano bestemmiò tre volte. Il messicano le sue bestemmie feroci le sparava in aria sempre tre alla volta. Anche Pietro del resto, pensò Giangia, aveva oltraggiato il suo maestro rinnegandolo con la stessa cadenza. Il messicano doveva avere la faccia e i baffi di Pietro il discepolo, pensò Giangia. Scesero in strada a guardare se la coda fosse cosa viva o no. Abbandonarono subito la speranza di sbarcarla in fretta. Il caldo in quella valle di mattoni ed erba alta menava le mani più forte che mai e non c’era niente a ripararli. Cercò il berretto blu di marinaio nel borsone, Giangia, mentre il vecchio si legava un fazzoletto intorno la fronte. Poi sbuffarono all’unisono guardandosi in faccia. Giangia pensò che avrebbe dovuto chiacchierare con l’altro. Tanto valeva rompere il ghiaccio e cominciare a darsi da fare. Guardò la medaglia al collo del messicano e sorrise senza farsene accorgere (almeno così pensò lui). Scese dal pulmino e si sedette in terra all’ombra della carcassa, appoggiando la schiena sul copertone anteriore vicino al portello. Il vecchio rimase al suo posto con le gambe allungate verso il corridoio. Alfio continuava a chiacchierare dagli altoparlanti ai due estremi del parabrezza. …il caldo ci opprime, lo so, amici miei. Serve una canzone fresca, che allenti un attimo questa morsa feroce che ci stritola la testa e il cuore. Serve… Alfio stava esagerando. Serviva piuttosto che se ne stesse in silenzio poggiando la puntina, che so, su un vecchio brano di…”chi mi andrebbe di riascoltare dopo Guccini, Battiato e Ruggeri?” Non finì il ragionamento Giangia che Alfio s’interruppe brusco. Le note fecero il resto. Breve intro al piano…
“In una spiaggia poco serena camminavano un uomo e una donna…”
Non si scompose. Pensò piuttosto a un trucco ingegnoso che qualcuno – magari il messicano – stava usando per farlo uscire pazzo o semplicemente per prenderlo in giro. Giangia sapeva di non aver pronunciato parola, essendosi limitato a immaginare e sperare che Gaber cantasse la sua canzone dalla radio di Alfio. Per questo il trucco era davvero fine e duro da smascherare. Provò a distrarsi: “Spiegami quel medaglione che porti al collo?” Sentì l’altro sputare una ventata d’alito cattivo. Gli giunse fin sopra la schiena, e tentò una difesa improvvisa. “Mi chiedevo proprio ora che cosa stessi aspettando a rivolgermi la solita domanda sulla mia catenina” rispose il vecchio.
“Catenina mi fa ridere sai. Io non ho visto catenine, ho parlato di medaglione semmai.”
“Senti, spiritoso che non sei altro, te la devi meritare la storia del mio medaglione, come lo chiami tu. La storia del mio medaglione è incredibile. Mi chiedono tutti sai il motivo di questo gioiello portato in bella mostra. E non crederai mica sul serio che sia disposto a rispondere ogni volta a chiunque?” Giangia non ci provò neppure a interpretare la reazione dell’altro. Lo guardò voltandosi. Lo guardò e basta. Ribatté d’istinto, subito pentendosene. “A me la racconti o no la tua storia? E se tu non volessi raccontarmela, cosa potrei dire per farti cambiare idea?”
“Niente devi dire. Devi solo comportarti bene. Decido io quando rispondere alla tua domanda e raccontarti la mia storia. Tu, spiritoso, non devi dire niente. Sali che ci stiamo muovendo.” Le auto davanti accesero i motori, Giangia socchiuse gli occhi e per un attimo credette che stesse cominciando a rilassarsi seduto con la schiena schiacciata al copertone. Avrebbe potuto rimanerci a lungo, affogato nel caldo con le gambe stese a mirare i campi abbandonati tenendo dietro alle fantasie di quella specie di Sancho Pancha da strapazzo. L’ombra del pulmino lo aveva rimesso in pace col mondo, affrancandolo dalla torre di fuoco che sentiva dentro a ogni respiro. “Muoviti spiritoso, ci stanno suonando da dietro, se non ti sbrighi fra poco qualcuno comincerà a tirarci schiaffi. E visto il fisico che ci ritroviamo entrambi, ti dico che avrà vita facile.” Si guardò nello specchietto retrovisore Giangia. Vide una figura grinzosa e concava che la barba non riusciva trattenere. Aveva ragione il messicano. Se fossero volati schiaffi, si sarebbero librati in aria soltanto in direzione delle loro facce. Accasciandosi su una delle poltrone in prima fila guardò davanti e non vide più auto furgoni camion a sbarrare la strada. Udì anche lui lo strombazzare alle loro spalle, mentre l’altro faticava ad accendere il motore. Clacson impazziti e offese senza ritegno. Un romano si affiancò dalla sua parte con un bolide da mille e una notte: “an vedi er vecchio?! Un glie se po’ di’ nemmeno li mortacci sua perché li mortacci sua manco se li ricorda da quanto è rimbambito.” Il messicano squadrò Giangia, ma non disse nulla. Alfio s’incuneò dai suoi altoparlanti col solito stile. Il caldo fa brutti scherzi ragazzi, l’asfalto scotta e le menti si incendiano. State calmi su quelle strade, ma se proprio non ce la fate a rimanere tranquilli nelle vostre auto, pulman, taxi, bisonti o altro, vi aiuto io a sfogare la rabbia. Non so chi state odiando in questo momento, di certo Alberto ce l’aveva con qualcuno di preciso. Millenovecentosettantanove. Fu un successo davvero notevole.
“Milano sono tutto tuo, Vincenzo no, non mi rinchiude più, Milano sii buona almeno, almeno tu…”
Giangia si sporse dal finestrino e ululò come un lupo famelico dietro al bolide che ormai era lontano un centinaio di metri, sovrapponendosi alla voce alta di Fortis: “Vincenzo io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere, Vincenzo io ti ammazzerò perché…” La strada fece un ampia curva a destra e il caldo tornò ad attanagliare la gola dei due uomini sul pulmino. Un colpo di tosse del messicano interruppe per un istante il brontolio sordo che il motore buttava fuori da sotto i loro sederi. Oltrepassarono altre uscite di vecchi paesi della pianura pisana, nuove mura di centri commerciali che non avrebbero mai aperto i battenti al pubblico, scavalcarono filari di vigneti pronti a esplodere e un giovane bosco di pioppi che proiettava sulla terra intorno ombre tenui e sfilacciate. Viaggiarono in silenzio finalmente. Ottanta, ottantacinque al massimo. Il nome del paese indicato nel cartello Giangia non se lo ricordava. Lo confuse col famoso gioco da tavolo. Poi lesse di nuovo. Montopoli. Una “t” di troppo. Il messicano decelerò imboccando la corsia a destra. Anticipò la domanda di Giangia. “Adesso dobbiamo percorrere una strada che in dieci minuti ci porterà a La Collina Blu” sottolineando bene l’articolo staccato dal sostantivo. La strada diventò a poco a poco più stretta fino a contenere a stento il pulmino. Giangia si chiese cosa avrebbe fatto il messicano se avessero incrociato un altro mezzo. “Ti starai domandando di certo come faremmo se davanti a noi apparisse un’auto?”
“Ma cos’è ‘sta storia, sono finito nel paese dei paragnosti?”, non si stupiva più Giangia. Le coincidenze non potevano essere sempre tutte coincidenze.
“Che vuoi dire spiritoso?”
“Che stavo giustappunto chiedendomi come avremmo fatto a…”

Il pulmino inchiodò. Il messicano morse il volante con gli artigli rimanendo incollato al sedile. Giangia sbattè forte contro il seggiolino di lato e si tenne al bracciolo fino quasi a strapparlo dalla carrozzeria per non volare nel corridoio a testa in giù. Soffiò in aria tirando indietro i pochi capelli mentre guardava il messicano che in strada aveva iniziato una discussione con un tizio che doveva per forza essere quello alla guida dell’insetto piantato di fronte a loro. Anche lui scese a terra tenendosi uno dei gomiti che gli doleva per il colpo. Non vedeva un’Ape da quanti anni? Non aveva avuto più occasione di vederne. L’insetto piantato davanti al loro pulmino. Un’Ape Piaggio. L’Ape era il pensiero che diventa materia. Roba da matti.Qualcosa non quadrava nella mente di Giangia. “Forse invece tutto torna…” pensò per un istante.
“Devi andartene indietro Beppe, sennò ti do uno sganassone”, il messicano sbraitava con le mani levate al cielo. Chiese Giangia cosa fosse uno sganassone. Rispose Beppe, ometto di un metro e sessanta, sessantadue al massimo, anche lui raggrinzito nei suoi cento e passa anni: “Questo popò di bischero mi vorrebbe da’ un cazzotto perché ‘un levo l’Ape dalla strada…”
“Ah lo sganassone sarebbe un pugno?”
“Oh come parla questo popò di figurino, Dalmazio?”
L’interruppe il messicano: “Beppe togli l’Ape sennò ti do…”
“Dalmazio vaffanculo. Torna indietro te con quel tu’ popò di furgoncino di merda. Io di lì ‘un mi sposto nemmeno se chiami i pompieri, la forestale e la guardia di finanza!”
“Dalmazio…?” provò a chiedere Giangia.
“Beppe, se non sposti l’Ape ti c’infilo dentro, chiudo a chiave lo sportello, vi spingo nel burrone e vengo stasera a vedere come state.” Giangia provò ancora ad intromettersi, non sapendo bene il rischio: “Sentite, giochiamocela a pari e dispari, su cinque chi ne vince tre.”
“Dalmazio…” intervenne Beppe “…ma questo popò di bischero che sei andato a prendere all’aeroporto l’hai scelto come?” Il messicano risalì sul pulmino e Giangia per un attimo temette il peggio. Si voltò verso la vallata, Beppe e la sua Ape non avrebbero avuto nessuna possibilità di salvezza. Un volo di cinquanta o sessanta metri non lascia in vita nessuno. Il pulmino si mosse e Giangia, impaurito davvero, urlò al messicano di spegnere quel cazzo di motore. “Vabbene, vabbene, popò di merda che ‘un sei altro. Mi sposto e ti faccio passa’ te e questo popò di bischero che ti porti al traino. E te lo sei scelto bischero sul serio stavolta. T’assomiglia anche. Il bischero.” Il messicano si sporse dal finestrino e rispose alle parole di Beppe che aveva udito da dietro al vetro: “Vuoi vedere che se non la finisci, più tardi, io e te facciamo i conti una volta per tutte?”
“Dalmazio, oggi pappardelle al cinghiale, e vaffanculo un’altra volta.”
Fu una manovra lesta e abilissima. L’Ape salì sul ciglione d’erba e atterrò di seconda sulla strada stretta compiendo una mezza luna intorno al pulmino. Giangia rimase a guardare quella sorta di acrobazia senza dire nulla mentre il messicano sorrise digrignando i denti.
“Scusami, non ho capito se la vostra è stata una recita (venuta piuttosto bene oltretutto, perché, nel caso, ci sarei cascato come uno sciocco), oppure qualcos’altro che non riesco a decifrare…”
“Nessuna recita. Neanche un po’ di teatro. Con Beppe è sempre così quando ci incontriamo a questo punto della strada. E’ così e basta. Da sessant’anni. Sono passati sessant’anni – e credo dodici Api, visto che ne cambia una a lustro – e ogni volta ci ripetiamo le solite frasi; e puntualmente compie la medesima manovra intorno al pulmino, su per il ciglio più alto. C’ha distrutto non so quante volte il semiasse, la coppa dell’olio oppure la marmitta, ma è più forte di lui, non ci rinuncia. Specie poi quando ho qualcuno con me a bordo.”
Ripresero a viaggiare, la collina si nascose sotto una macchia di verde scuro e la strada cominciò a inerpicarsi sempre più. A un tratto terminò pure l’asfalto. La ghiaia scricchiolava sotto le ruote, parevano colpi di pistola sparati in tutte le direzioni, anche contro i finestrini. Un sasso sbatté nel vetro proprio sulla faccia di Giangia che d’istinto si ritrasse coprendosi con il gomito sano. Il pulmino sobbalzava ad ogni metro, difficile restare in equilibrio. Il messicano cominciò a ridere e l’ospite pensò che fosse capitato tra le mani di un pazzo furibondo. Un altro pensiero lo colse d’improvviso. Forse il messicano lo stava incastrando, conducendolo in un luogo assurdo, all’estremità del mondo, alla fine. E quel pensiero si trasformò in realtà facendolo saltare in piedi dal seggiolino quando lesse sulla destra la scritta a mano, bianca, in stampatello maiuscolo, sopra un grande cartello a sfondo nero.
QUI FINISCE IL MONDO. QUESTO E’ UN SEMPLICE AVVERTIMENTO PER TUTTI I CURIOSI CHE AVRANNO L’ARDIMENTO DI AVVENTURARSI NEL BOSCO DEI CAIMANI NERI.
“Scusa, che vuol dire la scritta…?”
“Quale scritt…ah il cartello? Lascia fare, è una cazzata che ho inventato io.”
“Hai messo quel cartello inquietante per quale motivo? Per tenere alla larga i ragazzin…?”
“Siamo arrivati. C’è una curva adesso, l’ultima e poi saremo a La collina blu.” L’articolo sempre in bella evidenza.

Avete presente la reggia di Versailles? Lo stile era simile, quantomeno da fuori sembrava un’imperiosa dimora di un sovrano potente come pochi nella storia. Un loggiato al centro con colonne massicce e due torri simmetriche di lato che gettavano una lunga ombra sul prato verde curatissimo antistante le grandi porte d’ingresso sopra la scalinata. Giangia fu colto da un malore, il cuore saltò due o tre colpi per lo sbigottimento dovuto a tanta magnificenza. Guardò il messicano che non aveva cambiato espressione, anzi continuava a guidare tranquillo in direzione della casa. Alfio che se n’era rimasto muto per qualche tempo tornò a parlare (ma Giangia lo sapeva che Alfio prima o poi sarebbe tornato), e puntuale come al solito, sottolineò con decisa pertinenza il momento e l’emozione dell’ospite. Il messicano alzò soltanto di poco il volume della radio. Ed eccoci giunti a destinazione signori. Il viaggio è terminato. O meglio è terminato il viaggio d’andata. Non so se il ritorno sarà altrettanto piacevole. Mi auguro di sì e lo auguro a tutti gli ascoltatori. Non è ancora il momento di salutarci però. Non temete per me e non temete neppure per voi. Chiedo alla regia di accompagnarci con la canzone che più d’ogni altra invita a rimanere a terra anche quando sembra di volare in dimensioni che non sono più le nostre.
“Quando la morte mi chiamerà forse qualcuno protesterà, dopo aver letto nel testamento quel che gli lascio in eredità. Non maleditemi, non serve a niente, tanto all’inferno ci sarò già.”
Giangia non voleva sapere da dove venisse l’uomo della radio con le sue canzoni. Pensava che sarebbe stato uno sforzo inutile, che non avrebbe capito. E aveva ragione. Allora stirò le gambe e scese dal pulmino. La borsa gli parve più leggera, forse era per via dell’altitudine. Lassù in collina l’afa densa e appiccicosa era scomparsa davvero. Il messicano lo stava aspettando nei pressi della scalinata. Giangia si guardò attorno e pensò che lui quel posto da qualche parte lo aveva già visto. Internet forse. Tirò fuori di tasca venti euro e le porse al vecchio. “La tua mancia…” L’altro non ringraziò, prese i soldi e li cacciò in una tasca dopo averli osservati pochi secondi. “Così questo paradiso sarebbe La collina blu?”
“Già, vuoi sapere perché si chiama così?”
“Si certo, sono molto curioso. E soprattutto sono curioso di conoscere chi mi ha invitato in Italia e…”
“Al tempo simpatico, al tempo. Una cosa alla volta. Vieni, ti accompagno in un bel posto.”
S’incamminarono verso uno degli angoli della casa e girarono intorno a un gigantesco olmo prima di arrivare nei pressi di un’altra costruzione bassa e lunga. Si udirono nitriti lontani. “Le scuderie…” disse il messicano, “…vieni da questa parte.” Scesero per un lastricato di mattoni in cotto fino a un boschetto che via via divenne sempre più fitto. Poi gli alberi cominciarono di nuovo a diradarsi e lo spettacolo prese vita di fronte a loro. Non aveva mai visto e neanche immaginato una cosa simile.

Un lago nella valle in fondo imprigionava i raggi del sole proiettandoli d’azzurro sul rilievo di fronte. Giangia socchiuse gli occhi e cercò di mettere a fuoco la vista. Per un attimo smise di respirare. Il vitigno che si stendeva in filari simmetrici per ettari ed ettari di terreno seguiva il dolce declivio delle sponde collinose. Il colore intenso di grappoli oramai maturi rimandava nell’aria rimpolpandolo quel riflesso proiettato dal basso. Il gioco naturale di una luce specchiata dipingeva la terra del colore del lago. Il trucco non era un trucco. Solo acqua, aria e sole. Giangia si voltò indietro di scatto. Immaginò la faccia di Alfio che di soppiatto veniva con in spalla un portatile a suonargli Montagne verdi di Marcella Bella.

Rimasero in silenzio entrambi a mirare il panorama per un po’. Il vecchio poi si decise a raccontare la sua storia. “La medaglia che porto al collo è la punizione che mi sono scelto per tutte le cazzate che ho fatto. È peggio di un marchio a fuoco stampato sulla carne, perché fai una grande fatica a portare un segno d’infamia che potresti anche decidere di toglierti di dosso. Ma io non mollo, e non ho mai mollato per tutti questi anni. Non la sfilo più, neanche di notte.”
Giangia non capì nulla, l’uomo non s’interruppe. “Io sono fascista. Ho combattuto la guerra da fascista e non ho mai rinnegato la mia fede. Sono rimasto prigioniero degli inglesi per un sacco di tempo e non ho potuto dare il mio contributo alla nostra repubblica…”
“Ti stai riferendo a Salò per caso?” chiese Giangia.
Il vecchio continuò senza degnarlo di ascolto: “Il fascismo è l’unica cosa di cui non mi pento. Questo cazzo di medaglia con la falce e il martello, simbolo d’odio e di sventura, è la mia punizione corporale. La indosso tutti i giorni perché non sono riuscito a trovare nessuno di voi.”
“Io sono confuso, anzi non sto capendo letteralmente nulla. Scusa, ma chi sei tu?” “Quanti anni hai Giangiacomo?” Saltò in aria come un petardo: “Giangiacomo?!” La maestra Nancy Truman lo chiamava così. Certo, col suo tipico slang da bacucca newyorchese delle parti di Wall Street. Attraversava il Ponte a piedi tutti i giorni Nancy Truman, e veniva a Brooklyn in mezzo agli italiani sudici, lei appartenente a un mondo ricco e perbene. Veniva per insegnare l’inglese ai bambini americani di prima o seconda generazione, sudici anche loro come i loro padri e le loro madri, pronti però ad essere ingoiati dal meltin’ pot e tutto il resto. “A parte che non mi chiamano in quel modo da secoli, spiegami come fai a conoscere il mio nome?”
“Quanti anni hai ti ho chiesto…” la voce del vecchio andò in frantumi.
“Quarantaquattro.”
“Sei già stato da queste parti vero?”
“Si, tanti anni fa, quando studiavo al College, una di quelle estati i miei mi spedirono in Toscana. Il meritato premio dopo un anno speso bene a scuola. Ero molto giovane. Non mi ricordo l’anno…”
“Tu sei mio nipote. Sei il figlio di mia figlia.”
Stavolta, più che un petardo, una bomba a mano. Gli scoppiò dentro. “Non mi prendere per il culo vecchio. Tu sei l’autista di questa specie di castello o agrit…”
“Non è un castello e nemmeno un agriturismo del cazzo, se è quello che stavi per dire. E’ casa mia. E queste sono le mie terre. Quelle le mie colline, la mia uva ed anche il lago, laggiù in fondo, è roba mia.” Si toccò il medaglione per sentire se falce e martello ci fossero ancora. Le mani erano bagnate ed anche dai baffi protuberanti cominciarono a cadere piccole gocce di sudore.
“Tu saresti il padre di mia madre?”
“Che ti piaccia o no, è così.”
“Qual è il tuo nome vecchio?”
“Giacomo Marmugi, però tutti da sempre mi chiamano Dalmazio…”
“Mia madre non portava il tuo cogn…”
“Tua madre e sua madre, tua nonna, se ne andarono via senza di me tanto tempo fa e io non le ho più riviste e sentite. Credo fosse il quarantasei, poco dopo la fine della guerra. La tua mamma era piccolissima e sono certo che non abbia mai saputo della mia esistenza.”
“Non è vero, lei mi parlò più volte di un padre che non aveva mai conosciuto, disperso nella campagna d’Africa. Lei ha sempre pensato che tu fossi morto.”
“Non cambia di molto la questione credo. Rimasi imprigionato in Abissinia, ad Addis Abeba per diversi anni dopo che cessò il fuoco. Loro credettero che fossi morto e se ne andarono. Io non son riuscito a trovarle mai più. Ho trascorso quasi una vita a cercarle. A cercarvi. Sono venuto in America sette volte. Tra il quarantotto e l’ottantasette. Non so per quale ragione avevano cambiato i loro nomi. Le tracce si erano perse per sempre.”
“Mi sto sentendo male, mi credi?”
“Fammi finire, scusa. Per un destino assurdo ho scoperto, tramite un bravo investigatore, il nome di tua madre dieci anni fa. Ho attraversato l’oceano un’altra volta, e quando sono arrivato in quella sua casa spersa in mezzo all’Iowa, ho saputo che era morta da un po’ di anni per un brutta malattia. Me ne sono tornato indietro deciso a farla finita col cercare le persone ad ogni costo.”
“A quanto pare non ce l’hai fatta a smettere.”
“A quanto pare. A novantadue anni guido ancora il mio pulmino e raccolgo la mia uva, ma l’oceano no, cazzo. Ci sarei morto sopra a quel fottutissimo mare, a diecimila metri di altezza. Allora ho pensato che potevi esser tu a venire qua.”
“La fandonia degli scavi. Gli etruschi, la consulenza. I miei studi sull’archeologia…”
Si voltò verso la casa il vecchio e invitò Giangia a seguire il suo indice: “Vedi quella radura che scende fino a valle, interrotta da quel tratto di pineto? Il pineto è una miniera. Ci sono tesori delle antiche popolazioni etrusche che ancora aspettano di ritornare alla luce. Ti farò vedere qualcosa in casa, più tardi. Ti farò vedere una statua che assomiglia a un coccodrillo, ma non lo è di certo. La mia preferita. Quello è il bosco dei caimani neri. Solo io conosco la verità. Solo io so cosa nasconde.”
“Ma…”
“Lascia fare. Stanno ancora là, e finché ci resteranno saranno al sicuro da tutti e da tutto. Deciderai tu cosa fare poi.”
Si guardarono senza dire più niente. Fu necessario altro silenzio. Poi la voce di Beppe li chiamò da lontano. “Popò di briai. Si mangia. Dovete sentì che pappardelle ar cinghiale ha preparato la Ilena…”
Giangia mise in tasca le mani e allungò gli occhi verso la vallata. Aveva voglia di andarsene. I fascisti gli davano il voltastomaco e l’uomo di fianco a lui era uno di loro, niente più che un reo confesso. Vide un uccello calarsi in picchiata e svanire oltre gli alberi più lontani, pensò di emularlo. Si chiese se ci fosse un modo indolore per scomparire. Il vecchio accese un sigaro. “Ilena è una russa quarantenne parecchio discreta e brava in cucina…” disse, “…è con me da quindic’anni. Pensa, mi aiuta a tenere in ordine questo bendiddio.” Girò su se stesso e allargò le braccia. “Ogni tanto me la trombo ancora la Ilena.”
Continua