
Di notte il lago assomiglia a una prateria scura che ti graffia il viso con i suoi odori se solo la sfidi a un duello di sguardi. Di notte le sue acque confidano sempre qualcosa a chi le sa ascoltare. Lo fanno senza sprecare parole, con un leggero sussurro, un debole danzare di onde. Nessun affannoso vociare di tempesta, o moto di schiuma che si ribella vorticando inquieto fino a riva. Dentro quelle acque, che paiono timide come la loro risacca, c’è un mistero fitto e inestricabile. Il lago è un nulla che si prende l’aria di tenebra e la tiene a sé. Il buio passa sopra il suo specchio e non lascia traccia. Il mattino invece, con i suoi primi accenni di chiaro, appartiene a una storia differente. Pablo stava laggiù, sospeso sulle increspature. La palafitta era grande quanto bastava a contenere un cucinotto, la branda e un vaso per lo scolo di tutta la sua merda. L’uomo pescava dal balcone e dispensava rum a tutti quelli che lo venivano a cercare. Arrivavano al crepuscolo. Da ogni parte. Quando il sole era già ricordo. Scarpinando fino ai piedi della montagna, oltre il bosco di latifoglie, raggiungevano la sponda da sud. Poi se ne stavano a guardare in faccia Pablo mentre lui stendeva i bicchieri di vetro sopra il tavolo. L’uomo visse sulla palafitta per cinquanta anni, di più forse. Nessuno sa dell’ultima volta che oltrepassò il ponte di legno verso la terra. Tutto quello che gli occorreva alla vita veniva dal lago e al lago faceva ritorno. Il suo rum era bevanda che non assaporavi altrove. Cominciavi a percepirne l’aroma quando ancora battevi il sentiero del bosco. Il suo gusto aveva dentro il vento d’Alaska. Chi provava di giorno a incamminarsi verso il lago trovava il lupo a sbarrargli la strada, e pallottole vere che fischiavano sopra la testa. La belva stava di guardia nascosta nella macchia, di sera poi si ritirava più a valle nella foresta. Pablo pescava col sole alto, e puntava la canna del Beretta a chi si avvicinava troppo. Di notte invece aspettava i suoi ospiti, mentre una fragranza di canna da zucchero si liberava in aria così intensa da stordire perfino gli uccelli. Smettevano la picchiata i falchi a notte, e scrutavano dalle cime gli avventurieri che transitavano alla spicciolata sulla strada di polvere. Li vedevi con il passo guardingo avvicinarsi alla riva del lago nascosta da un muro invalicabile di giunchi. Qualcuno perdeva terreno già ebbro da quel bagno di odori che invadeva la radura. A gruppi poi si ritrovavano all’imbocco del pontile e, cauti fino allo spavento, iniziavano la traversata per la palafitta. Le donne facevano da battistrada. Quasi sempre. Sono tornata là dopo molti anni. Ne avevo dodici quando mio padre mi portò con sé la prima volta. Al villaggio dissero che solo un pazzo furioso avrebbe potuto condurmi sul lago. Mio padre era un pazzo furioso e non perché lo dicesse la gente del villaggio. Mi portò raccontandomi di Pablo e pregandomi che mai, in nessun caso, avrei dovuto tornare da lui. Perché lui mi avrebbe sparato. “Quel tizio, se per caso si rende conto di averti già vista prima, non conta neanche fino a tre per colpirti col suo fucile.” Credo che Pablo non abbia mai ucciso un cane in vita sua. Credo un’altra cosa però: per difendere ciò che nascondeva al mondo sarebbe stato pronto a impallinare chiunque. Nessuna ragazzina, eccetto me, lo so per certo, si è mai recata in quel posto. Quando Pablo mi vide, fece una smorfia e storse il viso con “un leggero movimento asincrono delle sopracciglia.” Poi disse a mio padre che non avrebbe dovuto portarmi. “Offrici il tuo liquore e ce ne andremo in fretta” gli risposel. Era una sera d’inverno e il buio pareva spingerci dentro la terra. Camminammo con le torce attraverso il bosco e con altri dieci uomini e donne arrivammo al lago sfiniti. La montagna scura ci respirava addosso, e il suo alito di rum pungeva alla gola. A metà circa del ponte sull’acqua vidi un signore con una barba marrone che ci guardava appoggiato allo stipite della porta. Ci versò una cosa scura dentro i bicchieri di vetro. Nessuno quasi pronunciò parola. Mio padre bevve quel liquido nero in un sorso, chiedendone ancora. Pablo ritrasse gli occhi versandone un altro po’ dentro il suo bicchiere. Poi il signore con la barba mi chiese cosa fossi venuta a fare. Non avevo risposte pronte ma non rinunciai a trovarne una. “Volevo conoscere e guardare in faccia l’uomo del lago che regala al mondo la sua bevanda preziosa.”
“Ok signorina, sono onorato della tua presenza qui stasera, e verserò anche a te un po’ di questa prelibatezza…” disse alzando in aria il suo recipiente di vetro “… solo che non devi dire che questa è una cosa mia, perché non è così. Semplicemente, non mi appartiene.” Non ci furono altre domande. Ce ne tornammo indietro in silenzio perché nessuno aveva voglia di aggiungere niente. Il vento è la cosa che ricordo meglio di quella notte. Ripensando a quegli attimi ho creduto che fosse giusto tornare ai piedi della montagna. Ho rivisto mio padre, il suo volto di scherno, che era specchio di una vita spesa a distruggere tutto ciò che fa sì che gli uomini siano attratti da Dio. Mio padre trascorse il suo tempo smontare il mistero che il divino usa per tenere a bada il mondo. Mi portò con sé fino al lago, oltre il bosco di latifoglie, per questo. Era certo che Pablo fosse un impostore, e l’abbondanza del suo rum niente più che un gioco meschino dell’uomo verso gli altri uomini. Ma non andò così. Respirò anche lui il vento di quella notte, ascoltò la voce della montagna e bevve il suo bicchiere doppio mettendo via la superbia di una vita intera. Il turbamento lo costrinse al silenzio fino al resto dei suoi giorni. Non parlò mai con nessuno della nostra avventura e io feci altrettanto. Sono tornata al lago di giorno, da sola, a mani nude, senza sapere bene cosa ci fosse ad attendermi. Sono tornata e basta. Sono tornata da grande, chiedendomi fino all’ultimo se davvero valesse la pena farlo. Sono tornata e ho ripercorso la stessa strada di un tempo che ricordavo a memoria. Ho camminato tra gli alberi, intenti solo ai loro versi e fragori. Ho raggiunto il sentiero, il lupo mi ha ignorato aggirandomi in un movimento rapido di chi si allontana scegliendo una preda che non sei tu. Poi ho visto la radura. Ho accelerato il passo mettendo da parte ogni residuo di timore. Sono arrivata ai giunchi, sempre di guardia alla riva. E poi ancora verso il pontile. La palafitta stava là in mezzo, come una volta. Mi ha sfiorato il pensiero che fosse quello il centro di questa parte di universo. Ho socchiuso gli occhi all’idea che mio padre non fosse con me a battere la strada. Non c’era più niente di quella notte lontana con lui che mi teneva per mano. Non c’era odore di canna da zucchero in giro. Mi sono fatta forza sulle gambe e sono saltata sul ponte tenendomi al passamano di corda ridotto a un filo lacero. Ho percorso pochi passi in direzione della baracca di legno che mi pareva in buone condizioni. Ero stanca e le mie gambe imploravano una tregua. Mi sono fermata a guardare l’acqua. E poi il sole che si accostava piano alla parete alta della montagna. Ho rivolto gli occhi verso la riva senza scorgere avventurieri di sorta. Il falco volava a cinquanta metri sulla mia testa e il lago mi era indifferente. Curvandomi verso l’acqua ho avuto voglia di fischiare una vecchia canzone che suonava sempre il mio vecchio. Una canzone che lui suonava perché lo facevano i suoi quattro amici di giradischi (così li chiamava). Ho fischiato ripassando in testa le parole che rammentavo bene. Parlavano di luoghi e gente del passato, dell’amore che tiene insieme i ricordi di una vita facendone treccia con l’usura dolce del tempo: “There are places I’ll remember all my life though some have changed…” Mi sono drizzata sulla schiena dopo un po’, provando dolore. Ho respirato a fondo e ripreso il passo. La palafitta era in ordine. La branda, il cucinotto e il tavolo al loro posto. Ho urlato per capire se ci fosse qualcuno nei paraggi. Ho perfino chiamato il nome di Pablo. Non c’erano uomini ad attendermi. Ho trovato una sedia dentro uno sgabuzzino accanto al vaso di scolo. Mi sono seduta sul balcone a fissare il lago. Ho visto l’acqua cambiare colore mentre il sole in cielo faceva un giro lungo intorno alle creste più alte. Guardavo il lago e il mio corpo è entrato in subbuglio. Mi sono arrampicata in piedi sulla sedia a caccia dell’ossigeno che sentivo mancare. Poi la temperatura ha preso a salire. Un vento lieve si è levato dall’acqua e qualche grande bolla subito dopo è esplosa in superficie. Ho atteso che il sole si appoggiasse all’ultimo spunzone di montagna e alla fine sparisse dietro una delle sue pareti. Allora il profumo ha invaso la vallata, salendo dal lago e forse dalla terra in profondità. Ho allargato le braccia perché volevo che nulla di me sfuggisse all’estasi di quell’inondazione. Ho respirato lentamente e a lungo, fino allo stordimento. Sono rimasta là, ritta sulla sedia a godermi l’odore di rum che entrava e usciva dai miei polmoni. Non so per quanto tempo. Sono saltata giù alla fine, mi sono chinata e ho lisciato il pelo dell’acqua. Ritirando la mano ne ho leccato il palmo fino a prosciugarlo. Ho chiuso gli occhi lasciando scorrermi dentro tutte le domande. Piegando il busto verso la palafitta ho scorto riflessa in un vetro rotto di finestra la faccia del mio vecchio che rideva e mi indicava un punto lontano, dietro di me, da qualche parte. Ho tolto gli abiti e mi sono immersa. “I know I’ll often stop and think about them, in my life I love you more…”. Ho ripreso la mia canzone e ho nuotato senza stancarmi, fino all’alba. Non hai bisogno di sbattere i piedi per tenerti a galla dentro un lago di rum. Devi solo bere con parsimonia e seguirne le onde leggere, bagnarti la faccia e lasciare che quelle onde si infrangano in aria fino a perdersi nelle foreste attorno. Ecco di cosa è fatto il vento d’Alaska.
segue: Intermezzo tre