Le favole di Rubber soul. Intermezzo due

La mia nera Takamine

Ripresi fiato e pensai che anche la nostra fosse una notte pazzesca. Il dromedario non avrebbe avuto granché da ridire. L’infermiera comparve silenziosa dietro di me e abbassandosi alla mia altezza disse sottovoce che dovevo starmene zitto e lasciare che lei riposasse in pace. La guardai senza rispondere. E guardai in mezzo alla sbottonatura del suo camice verde. Nessuno avrebbe potuto esimersi dal necessario di quell’incombenza. Giusto un’occhiata rapida. Il sorriso mancato della donna mi rivelò il suo destino triste, riflesso nei miei occhi e in quelli che a milioni continuavano a cozzare da una vita intera contro le sue tette potenti. La immaginai in un valzer lento, col ballerino che la stringeva a sé senza timore di pestarle i piedi.

“Ho bisogno della voce di mio padre. Sono io che ho chiesto a lui di parlarmi. Non si arrabbi per piacere.”

“Credo che la signora abbia ragione. Dovresti provare a dormire prima o poi…” intervenni senza un filo di speranza.

L’infermiera le appoggiò il termometro all’orecchio, si chinò verso di lei e per tutta risposta la baciò in fronte: “Tuo padre ha detto il giusto: faresti bene a dormire, ché è il modo migliore di riposare.” Lo disse mentre leggeva la temperatura sul display: “Trentasette e otto. Questa è una gran bella notizia. La febbre sta scendendo. Avviserò il medico appena possibile.” Cambiò la bottiglietta della flebo e se ne andò strizzandomi l’occhio. Era dalla mia parte la signora, anche se non sarebbe servito a molto. Non avrei saputo che farmene della sua complicità o presunta tale.

“Come hai saputo rispondermi, così, su due piedi? A tirar su una favola in presa diretta dopo che ero stata io a chiederti dello Shea Stadium? Come hai potuto ricordare tutti quei particolari, i nomi delle strade ad esempio?” Adesso i suoi occhi non erano più immersi in un pozzo profondo. L’acqua si era come prosciugata e il timbro della voce non suonava più come il rimbombo di un metallo pesante.

“Pensa un po’, stavo per farti la stessa domanda. Volevo io capire come fossi riuscita ad anticiparmi, chiedendomi di rivelarti esattamente la storia che avevo in testa. Sei tu, mia cara, il prestigiatore, fra noi.”

“Sto riflettendo su una cosa. Mi è venuto in mente che potremmo ripetere l’esperimento. Vediamo quanto talento siamo in grado di mettere a disposizione l’uno dell’altra” disse.

“Cosa significa con esattezza? Vuoi tentare la prova al contrario? Ti regalo un incipit se vuoi” lo dissi senza un minimo di convinzione.

“Non scherzare con il fuoco. È la tua notte e non ti rubo il palco neanche un solo attimo. Mettiti pure comodo sulla tua poltrona e fai un tema libero. Pensa a quello di cui avresti bisogno adesso ed escogita pure un altro tuo bel modo di narrare. Io faccio finta di ascoltare in sottofondo quella canzone che suonavi di continuo nella tua stanza, tanti anni fa, senza mai interromperti, per giorni e giorni…”

Non ho di certo suonato un gran numero di loro canzoni con la mia nera Takamine tra le pareti della nostra casa. Non ero abbastava bravo. Ne conoscevo una dozzina, poco più. Allora, senza chiedere niente, immaginai quale fosse il titolo che lei aveva in testa. La presi in parola. Sputai fiato dalla gola secca ed ebbi improvvisamente voglia di un bicchiere. In un giorno di un mio lontano compleanno, un amico mi aveva regalato del rum finissimo, vecchio di venticinque o trent’anni almeno. Chiusi gli occhi e ne celebrai il gusto tra lingua e palato, così da immaginare una nuova storia che ci avvicinasse al mattino.

segue: Il vento d’Alaska

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