Rocky Raccoon

X Factor è il Sanremo che non mi sono quasi mai concesso per averci creduto poco o niente. X Factor è una stronzata di show, ma anche l’ultima occasione rimasta per noi tre in famiglia di usare la tv con le giuste dosi di complicità e trasporto. Da quando abbiamo chiuso con i Teletubbies e Winnie The Pooh intendo. Guardo ogni anno X Factor perché è la mia frontiera americana: provo disperatamente a restare attaccato alla musica popolare per il tramite delle sembianze informi che assume in questo secolo oramai inoltrato, disintossicandomi per una sera dai vezzi e dai luoghi che ho alle spalle. Mostro una contenuta soddisfazione di fronte al trappista che lascia in pace il mio ventre basso e salto sul divano quando la giovane di turno (mi paiono una spanna avanti le ragazze in queste competizioni) usa gesti ed accenti insoliti fino a trascinarmi con sé nell’arte del travestire un vecchio motivo di uno stile nuovo e imprevisto (i luoghi che ho di spalle non mi lasciano in pace mai). Discutiamo animati noi tre allora, ed elargiamo giudizi ultimi. Emettiamo sentenze, pronunciandone all’occorrenza dure condanne. Si può fare, lì, dinanzi allo schermo, immersi nell’intimità profonda del nostro show. Non siamo d’accordo sempre. Alle volte i gusti in gioco neanche si sfiorano, poi tutt’ad un tratto (il coro, mi verrebbe da dire) un cenno di voce strappata dal dentro di una canzone sconosciuta ci riallinea su un’onda che cavalchiamo come quei surfisti che lo fanno in punta di tavola, incollati alla cresta più alta, pronti per esser travolti alla spicciolata da un’esplosione di schiuma improvvisa. Guardo X Factor perché ci fa muovere l’uno nella direzione dell’altro senza che ce ne accorgiamo. Fuori da qualunque necessità solenne o urgenza di sorta. Guardiamo X Factor perché ci piace parlargli addosso. Ognuno di noi con un’idea, e il tono giusto a tenerla in piedi. C’era una ragazza giovanissima l’altra sera che si è presentata con una folk a tracolla dicendo di cantare un pezzo dei Beatles di cui non ho capito il titolo. Camilla mi ha guardato sorridendo. Io le ho chiesto della ragazza in tv e della sua canzone. “È un brano dei Beatles, hai sentito?”. Qualcuno ha ripetuto il titolo e la ragazza ha iniziato a cantare. “Questa non è una loro canzone…”, ho sussurrato. Gli occhi di Camilla si sono riempiti di paura e sgomento. Non la ricordavo, non ricordavo neppure di averla mai ascoltata. Il titolo mi era sconosciuto. Agnelli e Mika la canticchiavano tenendo dietro alle parole della ragazza. Ho provato un senso di vertigine. Un vuoto dentro, smarrimento e angoscia. Per un secondo o due ho perfino creduto di essere morto. Ho cercato il telefono, e sul telefono Google, e dentro Google, Wikipedia. Ho preso un respiro prima che le mie residue certezze crollassero definitivamente ed io con loro. Rocky Raccoon ho letto, Album Bianco, millenovecentosessantotto, scritta, pensate un po’, dal duo Lennon-Mc Cartney. Ho infilato le cuffie e ho ascoltato la versione originale da You Tube. Ho guardato a lungo riflesso nella camera del telefono il mio naso per capire se davvero avesse cominciato a pendermi, e da quale parte. Ho continuato a stropicciarmi il naso senza più sentire voci e canzoni intorno a me. Mi sono steso sul letto alla fine e ho trattenuto a fatica il pianto. Il resto della nottata è stato un lento e doloroso risalire in superficie. In tutta sincerità, debbo dirvi che non è ancora finita: il tizio che mi porto appresso si chiama Vitangelo Moscarda; torna a trovarmi quando ne ha voglia, fa melina. In attesa dei Bootcamp prossimi venturi.

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