
Sono italiano di terza generazione. Potreste quindi anche non credere a tutto quello che sto per raccontarvi. E non dovreste fidarvi neppure di chi vi parla di Dio se prima non vi sia concessa la possibilità di accorgervi della Sua presenza, e magari in quegli attimi avete il sentore che anche Lui riesca a notarvi in qualche modo. Mi chiamo Frank, Frank Palumbo. Avevo quattordici anni, e quella mattina scelsi da solo i vestiti dopo che mi fui alzato dal letto. Infilai un paio di pantaloni stretti alle caviglie e la mia t-shirt con la scritta dei Knicks. Mamma era ammalata. “Rosolia” aveva detto il medico, e non mi avrebbe dunque accompagnato allo Shea Stadium quella sera. “Devi arrangiarti Frank, trova qualcuno che ti dia uno strappo fino al Queens” mi avvisò qualche giorno addietro. Uscii di casa intorno alle dieci. Il caldo e poi la tensione che non riuscivo a tenere a bada mi spinsero fuori quando il sole già sfregiava con righe di fuoco le vie sudicie del mio quartiere. L’ombra che le palazzine basse spalmavano sui marciapiedi non mi concesse neppure quel po’ di refrigerio buono a intenerirmi l’anima. Il sole era talmente ostile e ben piantato in cielo che pensai non sarebbe più sceso e che, se la sera non fosse venuta, io avrei potuto anche morire. Lo guardai in faccia appena uscito dal cortile di casa e lui sparì dietro a una nuvola. Giusto tre, quattro secondi di tregua; sperai che qualcuno salisse a incatenarlo dietro quel bianco troppo tenue ma non fu così. Era il 15 agosto del 1965. Abitavo a New Springville, nel mezzo di Staten Island. Avrei dovuto attraversare tutta la città per raggiungere lo stadio. C’era un italiano vero (direbbe così anche Cutugno): si chiamava Stefano Brondi, amico di mio nonno dai tempi di Delano Roosevelt, prima della guerra, trasportava frutta sopra un furgone vecchio quanto lui in giro per i ristoranti di Brooklyn. Faceva avanti e indietro due volte al giorno. Gli americani lo chiamavano Steve. E non so dove prendesse tutte quelle banane e quei cocomeri. Non so neppure come facesse a riempire e svuotare così, da trent’anni, il suo cassone di legno, giorno dopo giorno, senza mai concedersi un riposo, neppure per il Ringraziamento. Lo incontravo sempre allo spaccio dei tabacchi non distante da casa mia e scambiavo con lui qualche battuta sugli ultimi risultati della Major League. Era un uomo ruvido, Steve, buono, ma di poche parole. E pativa un’incazzatura cronica dal giorno della scomparsa dei Dodger alcuni anni addietro. Fu lui a offrirmi un passaggio dicendomi anche che non mi avrebbe mai accompagnato fino al Queens. “Farò comunque in modo che qualcuno ti prelevi e ti scorti in quella specie di catino lurido dove giocano gli stronzi che io non posso neanche nominare.” Ce l’aveva a morte con i Mets perché erano stati loro a portargli via un pezzo della sua storia. Percorremmo Rockland Avenue fino a Richmond Road senza scambiare una parola. Guardai il cimitero Moravian mentre risalivamo l’isola. Ci andavamo di notte laggiù, noi della banda, perché i morti, si sa, escono sempre con le tenebre e se volevi vederne uno in giro per quei viali dovevi per forza attendere il buio. Imboccammo Fingerboard che passa ancora oggi in mezzo a Grasmere e Cameron. Non c’era traffico in giro e le auto si muovevano veloci. Svoltammo un paio di volte fino all’autostrada e alla fine attraversammo Verrazzano. A Brooklyn si respirava un’aria diversa. Eccitamento e smog sparati a tutta forza nei polmoni. Proseguimmo dritti facendo un paio di fermate lungo il tragitto, scaricammo una trentina di casse fra pesche, susine e albicocche presso alcuni clienti che Steve aveva a Dyker Heights e, più a nord, in Sunset Park. Tacos El Flaco era un locale che non conoscevo. Un uomo grosso e con una barba grigia e spessa ci aspettava sulla porta del magazzino dietro la 44^ Street, quasi all’altezza della 4^ Avenue. Masticava una scorza di liquirizia. Ci disse in uno slang nordico, del Maine forse, che le angurie avremmo dovute scaricarle all’interno. Steve imprecò inforcando il volante anche con la destra, tornò sulla strada e quasi incazzato rinculò fino all’entrata del magazzino. Io non dissi niente. Guardai l’uomo con la liquirizia e pensai che discutere con lui sarebbe stato un problema. “Devo ritirare della merce prima di sera, a sette, otto chilometri da qui e non ho molto tempo. Quello ci chiederà di fermarci a pranzo. Lo fa sempre quando mi dice di scaricare all’interno…” Continuai a rimanermene zitto mentre guardavo la liquirizia sparire tra le labbra dell’uomo del ristorante. Sfilò dalla tasca della camicia sbottonata un’altra lunga stecca, la piegò a una delle estremità e cominciò di nuovo a ciucciare. “… e non possiamo rinunciare alla bistecca del Taco. Sarebbe da imbecilli” finì la sua frase Steve. Scesi giù dal furgone e cercai di non pensare a nulla. L’uomo mi indicò dove sistemare le angurie. Non lo ascoltai, perché non volevo entrare nel magazzino. Saltai sul retro del camion e cominciai a passare le casse a Steve che spariva e riappariva da una porta stretta e rugginosa. Svuotammo il furgone in venti minuti. La fame mi attorcigliava lo stomaco. Dissi arrivederci all’uomo della liquirizia e lui rispose con un movimento del capo appena accennato. Tremavo al pensiero di rinunciare alla bistecca. Il silenzio si inghiottì la strada e i suoi rumori. Il silenzio parve ingoiarsi Brooklyn in un boccone. Da lì il Ponte non si vedeva, lo spazio diventò quasi piatto, che so, come una strada che sfila via senza prospettiva; il tempo si contraeva invece, piegandosi come una curva a gomito. E, in quel suo restringersi con forza, si tirava dietro attese, ansia e vita ancora da vivere. Rimasi in piedi sopra al furgone e guardai davanti a me. Cercavo un punto di fuga che mi trascinasse lontano, scaraventandomi di colpo dove avrei dovuto essere quella sera d’estate umida, sotto un cielo basso e storto, tagliato da nuvole portate a braccia dall’oceano. Mangiammo la bistecca del Taco, senza salse piccanti e mostarda del Messico. Al sangue, con un velo di pepe nero, due foglie di lattuga e poche gocce d’olio, dense come miele. La carne prese a sfarinarsi tra i miei denti. Non ne avevo mai assaggiata di così buona. In tutta la mia vita. Non parlammo a tavola io e Steve. Non ce lo consentiva quel bendidio che avevamo davanti. L’uomo della liquirizia ci portò del pane e una brocca di vino scuro. Lo osservai come avrei fatto con un marziano gentile venuto a regalarmi dollari e dischi dei Beatles. Prese una sedia dal tavolo vicino e si mise a sedere di fronte a noi. “Devi farmi un favore, Brondi” disse. Steve smise di azzannare la bistecca che era diventata un osso lucido come le mie scarpe del college. Mi alzai in quell’istante chiedendo agli uomini dove fosse il bagno. Il tizio del Taco s’interruppe indicando con il pollice una zona alle sue spalle. Trattenni a fatica un rutto, versai del vino nel bicchiere e lo bevvi in un fiato. Poi mi allontanai dal tavolo mentre Steve stava chiedendo che cosa avrebbe dovuto fare per sdebitarsi del pranzo. Sentii la battuta di risposta dell’altro mentre chiudevo la porta del bagno. “Non vi offro il pranzo, Brondi, oggi. Dovete pagarvelo…” Sbottonai i pantaloni e mi prese il panico. Col cazzo che avevo i soldi per pagarmi la bistecca di Tacos el Flaco. Tre volte in vita mia avevo mangiato bistecca. Era una roba fuori dalle nostre tasche. Pisciai e, risistemando l’uccello nei calzoni, guardai in alto, verso la finestra che non aveva grate. Stavamo al piano terra. Ci pensai sul serio. Tanto da arrampicarmi sul water e sbirciare all’esterno per capire se esistesse un modo per allontanarmi da lì senza essere visto. Poi cominciai a sudare. Perché qualunque cosa fosse accaduta probabilmente non avrei mai raggiunto in tempo lo Shea Stadium per l’inizio del concerto. Tirai fuori il biglietto da una tasca, lo stesi con garbo sulle mattonelle fredde della parete rimuovendo la piega che si era formata su uno degli angoli. Chiusi gli occhi e respirai l’aria che stava diventando cattiva. “SID BERNSTEIN PRESENTS THE BEATLES.” Le facce di John Paul George e Ringo non mi avevano più abbandonato. Intendo dire che non mi ero più separato da quel rettangolo di carta sgualcita. Da quando lo avevo comperato qualche tempo prima coi soldi tirati via dopo svariati mesi ad asciugare auto nel lavaggio di Luke Sharp. “GRADINATA DI PRIMA BASE.” Avrei pagato il doppio, il triplo, tutti i soldi che non ho mai posseduto. Volevo il mio concerto. I Beatles erano venuti in città a trovare me. Non avrebbero neanche infilato i jack negli amplificatori se io non fossi stato presente. Guardavo il giardino zozzo dietro al Taco in piedi sul water, cercando una rete da scavalcare o un muro da saltare con due colpi d’anca. Riposi in tasca il biglietto del concerto e mi tirai su con le braccia. “Frank…” urlò Steve dalla sala, “… ti hanno impiccato in quel gabinetto, o sei fuggito?” Aggrappato al muro e con la gamba destra già posata sulla cornice della finestra mi bloccai. Sentii dei passi avvicinarsi alla porta. “Frank dobbiamo andarcene. Il nostro giro non è ancora finito.” Mi lasciai cadere a peso morto con un piede dentro il cesso. Rimasi piantato nella latrina. La mia scarpa si riempì di merda. E il puzzo di quella merda, che se n’era rimasto prigioniero in fondo al buco fino ad allora, soffocò gli ultimi residui di aria buona ancora in circolo. Non era la mia merda, non avevo cagato io in quel vaso, e di certo non avrei lasciato una cacca laggiù, a bagnomaria, dimenticando di sciacquare il water alla fine. Non era possibile per me dimenticarlo. Mia madre aveva urlato forte il mio nome dalla finestra del soggiorno. Quattro, cinque anni prima forse. Quel grido mi risuona ancora nelle orecchie. C’era dentro una rabbia antica. Contro di me, che non ero il figlio che aveva sognato, contro mio padre che non era più tornato indietro da una morte acerba e violenta, contro le paure che le vergavano la schiena e non la facevano dormire di notte. Mia madre aveva urlato il mio nome dalla finestra e io mi ero spaventato. Ero corso in casa e lei con una faccia che non le avevo mai visto prima mi aveva tirato per un braccio e spinto dentro il bagno. Poi salendo di un’ottava (o forse era solo la terza o la quinta, le stesse di Paul e George nel coro di Twist and Shout per capirsi) aveva continuato a strillare in italiano, mi aveva preso il collo, piegato la schiena e infilato la faccia nella tazza. La chiamava così. Mi aveva strofinato il viso contro la merda che avevo lasciato ribollire là in fondo. Non c’era ancora la catena a trascinare tutto nello scolo. Dovevamo riempire il catino e buttarlo dentro, una, due volte. Poi passare bene la spazzola. Io non lo facevo mai. Fino a quel giorno. La mamma spennellò due volte la mia faccia sullo sterco e io non ho più dimenticato di pulire. Da quel giorno il bagno di casa è il posto più pulito di tutta New York. Da quel giorno mia madre, nel cagatoio, potrebbe rigovernarci le sue stoviglie. Non era la mia cacca quella al ristorante. Io avrei fatto scorrere l’acqua e pulito per bene, la mia scarpa non si sarebbe insozzata. “Frank, ti sbrighi per piacere. Dobbiamo andare via subito” gridò di nuovo Steve. Quando respiri la merda di un altro perdi il senso dell’orientamento, l’umore si mischia all’odore ed è come se anche i tuoi pensieri prendessero un po’ di quello sporco. Le idee diventano confuse e ti pare che la testa possa anche staccarsi dal collo. Comincia una specie di balletto russo dello stomaco e le gambe diventano rigide. Aprii l’acqua del rubinetto, infilai la scarpa nel lavandino e feci finta di non sentire la voce di Steve che insisteva nel chiamare il mio nome di là dalla porta. “Frank… cosa cazzo stai aspettando?” Lasciai che l’acqua impregnasse la mia scarpa e assecondai il respiro che si allentò fino a farsi dolce tra la gola e il petto. Poi risposi con voce roca. “Ok sto arrivando, solo un attimo e andiamo.” Ci fu silenzio dall’altra parte. Il bagno del Taco diventò troppo stretto a contenermi tutto. Pensai alla faccia dolcissima di mia madre e guardai oltre la finestra. Una luna a tre quarti pareva chiamarmi fuori da quel posto. Credetti davvero che il pomeriggio stesse solo aspettando me. Mi voltai, tolsi il chiavistello e aprii la porta. I due uomini mi stavano di fronte con occhi impauriti, come se avessero pensato di non rivedermi mai più. “Quanto dobbiamo a questo signore per le due bistecche buonissime che ci ha fatto mangiare?” chiesi guardando in faccia prima uno poi l’altro. Scoppiarono a ridere. “Lascia stare ragazzo, la bistecca me la paghi un’altra volta. Oggi ti limiterai a lavorare per me…” Steve si era già voltato e stava tornando verso la sala. Gli corsi dietro, ma non mi dette modo di fare domande. Mi ordinò di salire sul furgone: “Fai in fretta che dobbiamo fermarci qualche strada più su.”
“Credevo avessimo finito” protestati con un fil di voce.
“Non abbiamo finito un cazzo invece.” Adesso non aveva più voglia di ridere.
“Ma io devo sbrigarmi, lo Shea è distante e tu hai detto che non potrai portarmi fino là.”
Steve salì e chiuse il portello con tanta forza che il parabrezza tremò per il colpo. Mi guardò negli occhi senza dire più niente. Mise in moto, salutò l’uomo del Taco con un gesto della mano e partimmo. Viaggiammo sulla Quarta Avenue verso il nord di Brooklyn. Non sapevo dove ci trovassimo quando il furgone accostò sul lato della strada. Ero rimasto in silenzio. Il terrore del tempo che si accorciava mentre io continuavo impotente a tenermi lontano dal Queens mi aveva colpito allo stomaco basso. Sentivo anche delle fitte su tutto il corpo e un’angoscia giovane saliva alle tempie in attesa di esplodere in aria. Non pronunciai parola. Steve spense il motore e io chiusi gli occhi a caccia di un respiro. “Diamo un’occhiata in giro. Da queste parti dovrebbe esserci una sorta di scuola della musica. Dobbiamo caricare un grosso baule. Ho bisogno di te Frank. Niente frutta stavolta.” Non distinsi le parole di Steve. Non capii nulla tranne il fatto che voleva che lo aiutassi a prendere qualcosa e a buttarlo dietro nel cassone. Il mio cervello era in corto. Fu come se a un certo punto il quadro generale fosse saltato. S’interruppe il mio contatto con il mondo, un grande nulla cosmico s’impossessò di me annullando di colpo il mio passato e il mio presente. Un coma verticale. Divenni un automa. Avevo in mente lo Shea, neanche Liz Taylor nuda nel mio letto avrebbe smosso i miei giovani e arrapatissimi neuroni da quel circolo chiuso. Scesi dal furgone, seguii Steve che dopo un po’ di avanti e indietro sul marciapiede puntò una grande porta a vetri e salì una mezza rampa di scale. Avevo dolori dappertutto, anch’io entrai dietro di lui. Guardai l’orologio appeso al muro della parete. Ci ritrovammo in una stanza quadrata con un bancone su un lato e tre pianoforti al centro. Steve chiese qualcosa a un signore in giacca di lino che sparì veloce da qualche parte nel retro, oltre un corridoio stretto. Non avevo la più pallida idea di cosa dovessimo fare, ma ricordo bene che il mio stato di coscienza continuava ad impedirmi di rientrare nel mondo dei vivi. L’orologio a muro segnava le due e quaranta del pomeriggio. Mi voltai verso il centro dello stanzone avvicinandomi ai pianoforti. Poi guardai oltre il vetro che stava alla mia destra. Lessi l’insegna fuori. Atlantic Terminal Mall. Non riuscii ancora a orientarmi. Non mi ero mai spinto così lontano da casa fino a quel giorno. Ebbi la sensazione però che ci fossimo avvicinati in qualche modo allo stadio dei Mets. Alzai gli occhi e mi accorsi che Steve mi stava fissando. Gli andai incontro con in testa una domanda precisa. Mi anticipò. “Stattene tranquillo ragazzo. Ti porto io a destinazione e non devi esultare né diventare pazzo per la gioia, o che so, rotolarti per terra e scaricare quel cazzo di nervoso che ti ha infilato dentro a un pozzo fondo e nero. Basta solo che risali su e tieni buona l’eccitazione per quando ce ne sarà davvero bisogno.” Buttai fuori aria dai polmoni. Quelle parole ebbero l’effetto della mano che spinge in alto l’interruttore. Il mondo era sempre lì, accanto a me, e non era cambiato poi tanto rispetto a quando lo avevo abbandonato poco prima. Mi asciugai la fronte con il palmo della mano, il sudore lungo il corpo che aveva ripreso di nuovo a bagnarmi i vestiti era un buon segnale. L’uomo in giacca di lino ricomparve dal corridoio. Dietro di lui due giovani ragazzi trasportavano con fatica un grosso baule nero con la scritta Vox Continental sul dorso. Lo appoggiarono in terra mentre l’uomo si rivolse a Steve: “Questo è quanto il signor Epstein ci ha richiesto due ore fa. E sono esattamente due ore che sto cercando un corriere che mi consegni oggi medesimo, diciamo fra tre ore al massimo, l’organo elettrico che sta là dentro. Ho chiamato poco fa Rudy del Taco quando mi sono accorto che in questa città non esiste un cazzo di corriere espresso. Sono suo cliente da anni, so che lui ha un camioncino per il suo ristorante. Mi ha detto che sarebbe venuto subito o avrebbe mandato qualcuno.”
“Bene, eccoci qua, puntuali devo dire. Mi dica dove devo consegnare quella specie di cassa da morto e faccia conto che stia già laggiù” lo interruppe Steve. Oltre alla giacca di lino l’uomo aveva una logorrea da ultimo stadio. “Dovete portare quella cassa da morto in un luogo che a tutto somiglierà questa notte fuorché a un cimitero. Non voglio nemmeno immaginare il casino che incontrerete.”
“Sputi l’indirizzo, o il punto preciso dove dobbiamo presentarci” disse Steve che non aveva voglia di perdere altro tempo con lui.
“Terzo ingresso, base due. Allo Shea Stadium naturalmente…” guardò l’orologio a muro e aggiunse “… fate in modo di arrivare prima che potete. Vi stanno già aspettando…”
“Una domanda soltanto. L’ultima se mi permette: mi scusi, ma chi cazzo è Epstein?”
L’uomo in giacca di lino parve svenire. Toccò la spalla di uno dei ragazzi che erano comparsi col baule dal retro chiedendo a lui con gli occhi dolci quasi di un innamorato a chi mai avessero affidato l’organo di Brian. Ebbi un rigurgito e un po’ di saliva mi andò di traverso. Anch’io dovetti trovare un appiglio. Mi spostai, posando il gomito su uno dei pianoforti al centro della stanza e cominciai a tossire. L’uomo con la giacca mi guardò col terrore in faccia. Chiesi scusa sollevando la mano. Non riuscii a parlare, quando avrei voluto urlare a tutta voce che la vita era bellissima e io un povero stupido che avevo smesso di crederci. L’uomo sfilò la giacca, compilò una ricevuta senza dire più nulla e la porse a Steve. Imbracciammo il baule e scendemmo le scale senza neanche salutare. Lo caricammo sopra il cassone e partimmo in direzione dello Shea. “Quello oltre a essere uno stronzo è pure finocchio. Te lo dico io” mi disse strattonando la leva del cambio che si era inceppata. Un attimo prima che esplodessi in un pianto di gioia senza fine. Quando riuscii a calmarmi dissi a Steve chi fosse Epstein. Avevo letto il suo nome sul retro della copertina di Help!. Gli spiegai anche che i dischi ora li facevano in un formato più grande. Dentro ci stavano dieci o anche venti canzoni. “Si chiamano 33 giri, perché si muovono più lenti e suonano più a lungo.”
“Chi ti insegna queste cose ragazzo?”
“Mia madre ne sa una più di tutto il resto del mondo.”
“Tua madre dovrebbe trovarsi un nuovo marito.”
“Mia madre non vuole un altro uomo. Io e mia madre ci bastiamo, e dopo che abbiamo finito di litigare ce ne stiamo in silenzio, mentre i Beatles suonano nel nostro giradischi.”
“E chi cazzo vi dà i soldi per comprarli i dischi, eh?”
“A quelli ci penso io con il lavoro all’autolavaggio. Il giradischi per ascoltare anche i 33 invece ce lo siamo comprati con l’assicurazione di papà.”
Steve fece una smorfia in segno di disapprovazione: “Dovreste risparmiare, porca troia, piuttosto che sputtanarvi l’assicurazione in scemenze come quel cazzo di coso che suona e non serve a nient’altro.”
“Allora, lo vuoi sapere o no chi è Epstein, il tizio che ha richiesto l’organo?”
“Chi è questo idiota? Sentiamo.”
“Il manager, Steve. Il manager dei Beatles. Ho letto il suo nome sul disco.”
Saltò quasi in piedi sul volante. Anche i vecchi come lui, fermi ai Platters e a Sinatra, conoscevano la band più famosa del mondo. Da settimane non si parlava d’altro. Lo stadio si sarebbe riempito di lì a poche ore. New York era in subbuglio. Cinquantaseimila biglietti venduti. A scuola e nelle strade non c’erano argomenti diversi. E anche dentro ai bar, al porto e nelle fabbriche. “Quindi la cassa da morto dietro è per i tuoi amici?”
“Non sono sicuro, non saranno i soli a suonare stasera.” Mi voltai verso di lui che distolse lo sguardo dalla strada: “E tu pensi che il loro manager avrebbe chiamato la scuola di musica per far arrivare un organo elettrico, o come diavolo si chiama quella cosa dentro al baule, a uno degli altri cantanti?”
Non parlammo più. La sua domanda rimase senza risposta e io non provai neanche a inventarne una. Andammo su per Flushing Avenue fino a incrociare la Grand. Da Corona in poi il traffico cominciò a diventare intenso. Steve pareva conoscere bene le strade e si destreggiava senza affanni nelle strettoie del quartiere. Eravamo in pieno Queens non troppo distanti dallo stadio. Il vecchio scosse la testa a un tratto e cominciò di nuovo a tirar stilettate: “Tutto avrei creduto fuorché dover consegnare un baule pesante a quelle quattro scimmie capellute che sono i tuoi amici, oltretutto in questa merda di posto.”
Risi a gran voce. Ma non ricordo se per le parole del vecchio o per l’eccitazione che mi faceva serrare i pugni e battere i piedi contro il pavimento del furgone. Svoltammo a Roosevelt mentre il treno in transito sopra le nostre teste coprì tutti i rumori del mondo. L’ingorgo in quel tratto era davvero pazzesco. Steve imprecò come non lo avevo mai sentito prima: “Porca puttana maledetta e fetente. Non mi ero mai trovato in un casino di auto così.” I quattro chilometri che ci separavano dal terzo ingresso-base due dello stadio dei Mets furono i più lunghi di tutta la mia vita. Una figura a metà tra un lama a due zampe e un dromedario stanco riconobbe il furgone da lontano. Lo vedemmo sbracciare e sentimmo le sue urla indirizzate a noi. Chiese a un poliziotto di farci passare oltre le transenne. Entrammo nella zona vietata alle auto fino a raggiungerlo. Steve abbassò il finestrino e l’uomo ci guardò stringendo gli occhi. Pensai si stesse cagando nelle mutande. Ci chiese di poter salire a bordo e io dovetti stringere parecchio le chiappe del mio culo per farlo sedere accanto a me. “Appena in tempo. Lo spettacolo comincerà tra mezz’ora o poco più. Ci faranno entrare dentro, fin sotto il palco. Vi chiedo un ultimo favore. Aiutatemi a scaricare l’organo, lo appoggeremo vicino alle transenne e chiuso. Saranno i tecnici a tirarlo fuori e posizionarlo a dovere.”
Lo Shea Stadium era in trepidazione e stava già cominciando a riempirsi. Steve guidò il camioncino a passo d’uomo sul campo da baseball mentre io pensavo che sarei morto di un colpo prima di sera. Mostrai al dromedario il biglietto del concerto chiedendo come avrei raggiunto il mio posto sulle gradinate. La sua risposta fu la più bella che potesse regalarmi: “Temo che dovrete assistere al concerto dal prato, neanche troppo distanti dal palco.” Poi si rivolse al vecchio: “Le dirò dove parcheggiare il furgone dopo che avremo scaricato. Toccherà a voi recuperare l’organo alla fine del concerto e riportarlo indietro domattina o quando volete.” Mi sorrise Steve, con la faccia di un uomo al limite dei suoi giorni, come a dirmi: “Ti toccherà sorbirti il concerto accanto a un rompicoglioni come me.”
“Lei signore sa a chi serve l’organo questa sera, a quale dei cantanti intendo?” chiesi al dromedario.
“Che intendi dire, ragazzo?”
“Voglio dire, chi l’ha richiesto, la band di Brenda Holloway oppure i Sounds Incorporated…?”
Steve mi guardò come si guarda uno che parla texano.
“Davvero sveglio il giovane. Siamo tutti qui per loro ragazzo. La richiesta dell’organo ‒ esattamente del Vox Continental che avete trasportato qui dalla scuola di James Woodlaw ‒ è arrivata da Lennon…”. Puntai i piedi contro il cruscotto e mi trattenni dal lanciarmi giù dal finestrino. “… Tramite il suo agente Epstein che ha parlato con me e con lo stesso Woodlaw, che penso abbiate conosciuto. Non hanno mai usato l’organo i Beatles durante i loro concerti ed eravamo impreparati. La richiesta ci è giunta all’ultimo. Comunque ce l’abbiamo fatta, soprattutto grazie a voi.” Mostrò i suoi denti larghi e da quel giorno il dromedario è diventato il mio animale preferito. Uno stuolo di poliziotti intanto ci stava facendo cenno di avanzare verso il palco sistemato nei pressi della seconda base. Assistemmo a tutte le esibizioni dal prato, intrappolati tra due schiere di uomini in divisa che si sfaldarono quando alle 9 e 16 minuti loro apparvero sul campo con le giacche chiare e in braccio gli strumenti. Non eravamo per nulla distanti. Il boato fu impressionante e la gente in preda a una follia collettiva cominciò a saltare e dimenarsi all’unisono a tutte le altezze delle tribune che ci sovrastavano. Era un mare forza nove che si muoveva dal basso verso l’alto e poi ancora dall’alto verso il basso, saliva al cielo e precipitava di nuovo sulle nostre teste, inondava l’aria senza che nessuno venisse risparmiato. Ebbi paura di annegare in quell’onda umana. Steve rimase con gli occhi sbarrati dal momento in cui i quattro apparvero sul prato. I poliziotti cominciarono una corsa affannata sparpagliandosi per tutto il campo a caccia di chi saltava le reti in direzione del palco. Restammo al nostro posto e fu come immergersi in un liquido che non lascia passare niente. Il suono degli strumenti era appena percettibile. John e Paul attori dentro a uno di quei vecchi film di Chaplin. Ma non importava. Il centro della Terra era New York quella notte, e io stavo esattamente là. Pensai che la Storia stesse gettando la maschera e si stesse liberando finalmente di catene che da secoli la tenevano prigioniera. Con lei parevano ribellarsi tutti gli uomini e le donne del mondo. E la colpa era solo di quattro balordi che si erano inventati Please please me, She loves you e pure I feel fine. Le grida della gente coprivano i suoni e le voci fino all’ultima nota. Le ragazze piangevano e anch’io avrei voluto lasciarmi andare, ma non ci riuscii. Rimasi immobile mentre guardavo il mare in tempesta che non intendeva placarsi. Non fu più una notte di musica. Dal momento che salirono lassù e cominciarono con i loro accordi. A malapena distinguevo le canzoni in scaletta ed ero a non più di venti metri dagli amplificatori. John non si avvicinò al suo Vox Continental per tutto il concerto. Fino a quando non suonarono l’ultima canzone prima di fuggire dall’inferno. I’m Down, un rock ’n roll tirato che stava dietro al 45 di Help! “You tell lies thinking I can’t see, you can’t cry ’cause you’re laughing at me…” immaginai le parole da Paul dal movimento delle labbra. Guardai Lennon mentre strattonava sudato i tasti e strusciava sfinito i gomiti su e giù per la tastiera. Mi arrivò il rumore di un rospo che non ce la faceva più neanche a gracidare. George gli stava vicino e rideva da pazzi, la gente continuava a lasciarsi trascinare in quel vortice. Poi a un tratto ebbi l’illusione che dal palco, dietro l’organo che stava maltrattando, lui cercasse qualcuno tra la folla. Fu un attimo, quasi impercettibile, scorsi i suoi occhi che mi fissarono, come se sapessero; lo vidi abbandonarsi a un timido accenno di sorriso. Poi sollevò le braccia come a farmi un cenno. Pensai che stessi impazzendo in mezzo a quel casino. Steve, che era rimasto vicino a me per tutto il tempo, mi agguantò la spalla fino a farmi male. Scesero giù alla fine e se ne andarono in fretta. Il mare cominciò a sgonfiarsi e la Terra, a fatica, tornò a essere un pianeta normale. Attendemmo l’ok di qualcuno e ci avvicinammo al palco. Un esercito di uomini stava già smontando tutto, quando il dromedario apparve dal nulla dicendo che potevamo riprenderci il furgone e caricare il nostro organo. “Ehi ragazzo…” aggiunse mentre accendeva una sigaretta “… ho parlato con John nei camerini, prima che entrassero in scena, gli ho detto che un pivello alto, magro e con la maglia dei Knicks si era davvero sbattuto per l’organo che lui aveva voluto a tutti i costi in questa notte pazzesca.”
segue: Intermezzo due