Le bestie giovani

Le bestie giovani, Davide Longo, Einaudi 2021

Ho letto questo libro perché mi ha esortato Baricco a farlo, qui in rete. Non ne vado particolarmente fiero. Di aver tenuto dietro a Baricco intendo. Che non è Calvino, e nemmeno Sciascia o Garcia Marquez. Novecento è un gioiello prezioso che abbiamo fatto nostro, tutti, quasi indistintamente. Più del film che pure non mi dispiacque. Di altre sue parole posso fare a meno. Chiusa parentesi (che manco avevo aperto). Quel suggerimento ad ogni modo me lo son tenuto buono, così ho comprato Le bestie giovani di Davide Longo. Ho dato uno sguardo all’anteprima, poi ho chiuso Amazon e sono andato in libreria. L’ho trovato subito, tra gli scaffali delle novità e dei libri suggeriti da Baricco, che continuava a sorvegliarmi  da dietro l’angolo del primo risvolto. Mi è venuto un dolore all’anca e la voglia di tornare su Amazon. Ho pagato in cassa alla libraia che non ha smagnetizzato l’antitaccheggio. Il suono della barriera ha risvegliato dal sonno anche l’uomo scimmia del Pleistocene ed io sono tornato indietro sorridendo in faccia alla ragazza: “La prossima volta lo rubo sul serio e fuggo in strada…” le ho detto, “…tanto la figura di merda è più o meno la stessa, almeno risparmio sul prezzo di copertina.”

Le bestie giovani dunque. Chi sono, cosa è rimasto di loro, quanta parte della nostra storia patria dobbiamo ancora apprendere? La vicenda ci è narrata per il tramite di due poliziotti che appartengono a generazioni differenti, differenti loro stessi dentro una ruvidezza tenace che li accosta e li vuole legati ancora per un’altra indagine. Il più giovane di loro si chiama Arcadipane, è un padre di famiglia normale fino al midollo, che lavora a cavallo del giorno e della notte e sbatte contro questioni che gli anni di piombo tengono ancora al caldo sotto la cenere spenta. Cemento, polvere e merda si respira da queste pagine che ci trascinano in una landa di nord austera fino ad irritarci. Le scene più autentiche mi pare che Longo sappia coglierle però al chiuso delle mura strette che il commissario giovane divide con la moglie e i suoi due figli adolescenti. C’è tutta la fatica di vivere dentro quelle mura, e il sudore dell’amore profondo. Longo, qui, a tratti, si fa campione di scrittura, al netto di quanto ci riferiscono i discorsi di Baricco, più marchettari che eruditi (è un complimento il mio, nei riguardi dello scrittore torinese, un elogio anzi, vi avverto).

“Gira intorno al letto e si mette dove la può guardare da vicino. Il viso lontano, la pelle un po’ lucida del grasso della notte, i seni sotto la camicia che la gravità preme al materasso. Non sa dire se è bella. È come se qualcuno ti chiedesse se trovi bello il tuo stomaco, il tuo fegato. Uno stomaco, un fegato non sono belli o brutti, semplicemente ci sono o non ci sono, dànno problemi o funzionano bene. Lei c’è. Funziona bene. E per questo lui vive. Non ha nemmeno bisogno di metterle la mano sul viso per sapere tutto questo. L’ha fatto così tante volte che è la sua mano a essere il calco di quella faccia. E non viceversa.”

Arcadipane esce di casa e va lontano a dipanare la sua matassa. Cerca quello che le bestie giovani hanno lasciato in giro, e magari un po’ di quell’altra porcheria più grossa che cola attorno le loro gesta. Bisognerà che qualcuno smuova il culo prima o poi e faccia come lui. Qualcuno che usi bene i ferri del mestiere e sappia scovare una verità degna di questo nome, in fondo alla storia che ha segnato la carne e lo spirito negli anni duri del terrore e della strage. Una verità complessa, intricata, non a buon mercato, fredda, alla larga dal pregiudizio scaduto e dalla propaganda che sa di stantio. Una di quelle verità che, nonostante tutto, non soffoca, neppure sotto la cenere spenta.

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