
All’inizio c’è bisogno del segnalibro. Poi si prende confidenza con gli uomini e le donne che popolano il racconto e del segnalibro si può fare a meno. L’uso non è quello suo solito, serve piuttosto come passepartout tra una vicenda e la successiva, e tenere a bada un certo disorientamento. In questa grande saga familiare il trascorrere dislessico del tempo va oltre il turbillon di generazioni che Maggiani maneggia servendosi anche solo di un punto e a capo. Tiene insieme tutto il trascorrere dislessico del tempo. E assume facce e forme variegate. Non è un semplice andare e venire, un avanti e indietro disordinato nei giorni e nelle stagioni. Semmai un attraversamento vorticoso di secolo. Il più duro e inestricabile di tutti i secoli. Ce lo dice Maggiani per il tramite di una delle sue persone che cos’è questo libro. “Un pellegrinaggio. L’Artista pensa che non ci sia niente di male nel pellegrinare, andare nel tempo, tornare dove non si è mai stati, camminare incontro a un miraggio, non tornare più.”
Ho fatto un sogno un po’ di anni addietro, nei tempi in cui la mezza età cominciava ad affacciarsi opaca all’orizzonte svuotando i miei pensieri da convinzioni oramai in disuso e facendone nascere di nuove tutto sommato inattese. È lesta ad attraversarci la mezza età, lo fa senza accordare fermate intermedie.
Che più di un sogno, il mio era forse un rimpianto. Stavo al centro di una pista stretto ad una donna bella come poche. Aveva il volto giovane di mia moglie. Ci trascinavamo agili e leggeri, la musica che suonava era una Cumparsita di piano e fisarmonica. Le persone facevano spazio intorno e si ritraevano ai lati, neanche un respiro che ingannasse i nostri passi sicuri. Solo musica e corpi, e gambe sotto di noi che s’intrecciavano perdendosi per ritrovarsi all’istante. Non ho mai saputo muovere un passo di danza. Incarno l’anticristo in questo. Ho la negazione viva e velenosa mischiata a piastrine e globuli d’ogni forma e colore. Non ho mai tenuto dietro a Mary che è abile e piena di sole invece. La musica mi è entrata dentro per altre vie. Non ti serve il ballo se da bambino perdi la testa per Lennon&McCartney. Neanche quando, più grande, ti inebrii di Neal Young e della sua Martin. Non ti serve il ballo per gli Zeppelin e i Lynyrd Skynyrd. Non ci sgambetti sull’assolo di Hotel California. Puoi provarci nella città vecchia forse ma no di certo in posti come via del campo o su spiagge che sono il rifugio ultimo di pescatori e assassini. Allora devo aver patito un senso di colpa che ho nascosto a me stesso senza ritegno. Ho negato a Mary un compagno da stringere e far girare ad ogni occasione. Non c’è mai stata quell’occasione, anche se lei non posa ancora le armi e prova di tanto in tanto a muoversi tenendomi caparbia le mani sopra ai fianchi. Il mio elettroencefalogramma è piatto però, e non tornerà indietro dalla sua posizione di comodo.
Non sono buono a ballare, l’ho appena detto, ma se ascolto la Cumparsita, oggi come qualche anno fa, divento bravo a sognare. Quando sogno m’invento storie che poi sistemo un po’ alla volta su un foglio di Word. Qualcuna nasce morta. Altre soffrono di un rachitismo precoce. Uso il tasto Canc a ogni piè sospinto. Alla fine mi convinco, rileggo e salvo con nome, chiedendomi se davvero sia rimasto quanto serve, anche solo un filo esile che resiste all’usura perché ha abbastanza anima.
Poi ho comprato L’Eterna gioventù. Compro sempre troppi libri. Un giorno dovrò chiedere soldi in giro e sistemare un banchetto sulla strada per disfarmene. È una fiaba L’eterna gioventù, che si lascia scorrere in fretta come la mezza età. Perché culla l’idea di una speranza che tiene insieme le vite, “la speranza che non si limita all’apprensione ma conosce anche la gioia.” E intanto avvicina a un’altra idea, altissima e sublime. Prendo a prestito le parole stesse del Maggiani che scrive, taglia e cuce come un vero artista di sartoria. E l’Artista è anche la figura d’uomo al crocevia della famiglia di cui l’autore ci narra. Dura sei generazioni questa storia. Dipana dal figliastro di Giuseppe Garibaldi (che porta lo stesso nome del suo padrino), morto per non disperdere la memoria del Bresci che fu principe di tutti i vendicatori giusti. E giunge fino al giovane Menin, erede ultimo dell’Indomita Anarchia, quell’idea sublime tanto antica e scintillante che nessuna modernità passata presente futura riesce anche solo a scalfire.
Ho bevuto d’un sorso questo romanzo lasciando il segnalibro al capitolo che parla della felicità nei piedi. La stessa che ho sognato e che ho mancato di dividere con Mary.
Perché sono tornato alla fine in quelle pagine a spiegarmi che cosa mi ero perso? Parlano del tempo immediatamente successivo alla prima guerra, che fu tempo di occasioni mancate, tempo di guerra ancora, guerra vera: alla fame, al privilegio marcio, ad un re stupido e ai suoi luridi baroni. Piero, “orfano e reduce di una vittoria bugiarda” e la Canarina, anch’essa giovane d’una gioventù ostinata e ribelle, si lasciarono prendere dall’amore profondo. Dall’amore e dalla passione alla rivolta che cominciava ad accendersi dentro e fuori delle fabbriche, laddove “aveva eletto il suo campo di battaglia il nuovo esercito dei capitani d’industria, la nera creatura di un socialista che aveva abortito il socialismo”, colui che “si era impadronito della santa memoria dei Fasci di Sicilia e ne aveva fatto la guardia reale degli affamatori del popolo.” Combattevano la nuova guerra Piero e la Canarina e lo facevano al passo della Cumparsita che infuocava i loro cuori rinnovandoli all’amore e alla rivolta. E quei due travolgevano d’estasi gli astanti ogni domenica al circolo della Fratellanza degli Operai di Coronata. Ho riletto il capitolo O, il capitolo di Piero e la Canarina che struggono di tango fino a quando la Storia non prende la piega più nera che può. Più nera di quanto già non fosse. Ho riletto il capitolo della felicità nei piedi e ho tenuto stretto il mio sogno senza più bisogno di scriverlo. La Cumparsita, meraviglioso tango, danza agli estremi, non è di stimolo all’amore e alla rivoluzione. È essa stessa amore e rivoluzione. E così, come l’Anarchia, “non si può dire, si può fare e basta.”