
Mi fermai, sicuro che si fosse addormentata. Aveva avuto la sua storia, ora mi avrebbe lasciato in pace. Se ne stava con gli occhi chiusi sempre rivolta dalla mia parte. Non aveva mosso un muscolo mentre parlavo. Guardai la flebo sopra la sua testa sincerandomi che il liquido scendesse ancora lungo il tubo che finiva nel suo braccio destro. Respirava ossigeno dal naso (giusto per concederle un po’ di sollievo aveva detto il medico) e io mi alzai in cerca di acqua. Bevvi da una bottiglia in plastica sul comodino alto all’altro lato del letto, lei si accorse del mio spostamento: “Babbo, è interessante ciò che mi hai raccontato. L’ho apprezzato davvero, però non è quello che io ti avevo chiesto.”
“Ah, sei ancora sveglia… credevo tu stessi dormendo, cara.”
“Non sto dormendo, ho solo gli occhi chiusi che mi consentono di ascoltare meglio la tua voce.”
“Bene, e come ti senti, pensi che la febbre sia scesa anche solo un poco?”
“Forse.”
Forse.
Girai di nuovo in tondo al letto e vidi i suoi occhi che mi stavano cercando: “Una confessione. Ecco cos’era la tua. Una specie di confessione. Una cosa che è servita a te, babbo, e che in fondo conoscevo in qualche modo, non perché tu me ne avessi già parlato, così, a chiare lettere. Solo per il fatto di aver vissuto insieme per un bel po’ di anni. Io ti avevo chiesto una favola però. Tu non mi hai raccontato una favola, e io non intendo rinunciarci.”
Mi piegai sulle ginocchia, verso il basso, a cercare un meccanismo nascosto nella parte posteriore che potesse reclinare finalmente la spalliera della mia poltrona. Non trovai leve e neppure pulsanti magici. Mi sedetti, abbandonandomi a un sospiro che avevo trattenuto fin troppo a lungo. Masticai la lingua umida e un senso di amara sconfitta. Le feci segno con la testa che sì, avrei trovato da qualche parte, pescando fra i ricordi di vecchi libri, o nascosto nel middle eight di una loro canzone, un rimasuglio di favola apposta per lei. Le feci segno che poteva contare su di me. La sua lenza era corta però: “Raccontami di quel concerto fantastico, babbo. Quel loro concerto in terra americana allo Shea Stadium di New York. Andiamo anche noi a Forest Hills. Adesso. Come ci arriviamo, babbo, nella zona del Queens, a est di Manhattan? E quanto tempo credi che impiegheremo?”
“Adesso te lo dico. Tu intanto prova di nuovo a chiudere gli occhi.”
Guardai la notte oltre la finestra, era segnata da un grigio che pareva schiarirsi col trascorrere dei minuti. Tirai su col naso e trattenni a stento il moccico che si era ingrossato dentro e chiedeva una via d’uscita a ogni costo; tirai su col naso perché in certi momenti della mia vita, mentre cammino sul filo, in bilico sopra il precipizio, non ho fazzoletti di carta a portata di mano.
segue: Un giorno incredibile del ’65