
Oporto, febbraio 2017
Quando San Pietroburgo era ancora Leningrado, io abitavo là. Poi un giorno del 1987 non sono più tornato. Dopo che mia moglie se n’era andata anch’io ebbi la mia occasione. Anch’io me ne sono andato. Ed è stata la cosa migliore. Non ce l’avrei fatta da solo a tirare avanti troppo a lungo. Ai vecchi tempi la vita dalle mie parti ti passava a fianco e potevi coglierne giusto qualche tratto lieve che non bastava a inebriarti neppure quel poco perché tu fossi anche solo sfiorato da un’idea vaga di felicità. Ero molto giovane e lei una donna bellissima. Tornavo ogni sera dopo lunghe giornate trascorse, una via l’altra, al conservatorio, oppure nelle aule dei palazzi sulla prospettiva Nevskij dove lavoravo. Leningrado pareva una grande fogna pulita. E io mi sentivo il più pestilente tra tutti i topi che la popolavano. Suonavo il violino. A dire il vero ero uno dei musicisti più giovani mai entrati a far parte della Filarmonica, e non divenni solista giusto perché non ne ebbi il tempo. Non ero solo il più giovane orchestrale che il maestro Evgenij Mravinskij avesse diretto da tanto tempo; c’era del genio nel mio modo di riprodurre musica. Era sempre stato così. Dal giorno in cui nacqui. Forse lo è ancora oggi. Ho avuto fin da bambino una confidenza sfacciata con gli strumenti che mi sono capitati fra le mani e riconobbi note sul pentagramma prima ancora di imparare a leggere e scrivere nella mia lingua madre. La musica è la mia lingua madre.
Tirò giù il suo vecchio piano dalla soffitta di casa e io cominciai a spingere sui tasti che avevo sì e no quattro anni. La prima volta che sedetti sullo sgabello davanti a quella specie di enorme scatola scura appoggiata al muro nel salone degli ospiti suonai una cosa che somigliava alla sinfonia n. 12 di S̆ostakovič che forse avevo sentito qualche volta dal suo giradischi. Non so come accadde e nessuno è mai riuscito a spiegarmelo. Non è cambiato granché da allora. Certo gli anni di studio e l’affinamento della tecnica hanno fatto la loro parte, è quasi stupido ammetterlo, ma non sono mai stato un bambino normale, assomigliavo a una cassa di risonanza piuttosto. Ogni cosa percepissero le mie orecchie mi entrava dentro e ci rimaneva fintanto che le mani non avessero modo di riprodurla sulla tastiera, quasi alla lettera.
Era un ufficiale dell’Armata Rossa mio padre, assegnato ai rapporti con i consolati esteri dislocati sui territori baltici dell’Unione Sovietica. Un alto dignitario stimato e temuto negli ambienti più importanti dell’esercito e del partito. Laureato in lettere e filosofia, conoscitore di almeno dodici lingue tra cui il sanscrito, l’arabo e il cinese. Ricordo il suo rigore e la severità che non lasciava scampo a nessuno. Neppure a mia madre. Un fottutissimo figlio di puttana, insomma. Mi riempì la testa con la sua smania di studio e disciplina dal giorno che sgusciai fuori dal ventre di quella povera donna, e non ha mai abbassato le difese né con me né con lei fino all’ultimo. Cominciò a parlarmi in inglese un giorno, e non smise più. Distanti anni luce l’uno dall’altro, non eravamo in grado di appartenerci neanche un po’. Alle volte non pareva neppure un essere umano. Un blocco di cemento gli era cresciuto sul viso come una specie di maschera perenne da cui non traspariva nulla. Non ricordo di lui un sorriso. Abitavamo in un palazzo antico nel centro della città, non distante dal conservatorio dove entrai all’età di otto anni. Mi affidò da piccolo a un maestro di piano che veniva a casa nostra tutti i giorni: si stupiva dei miei prodigi. Tra un’ora di lezione e l’altra si scopava mia madre, il maestro. Andò avanti così per qualche anno. Ve l’ho detto, riproducevo di colpo tutto ciò che quel tizio accennava al piano. Bach mi faceva schifo ma le sue note uscivano bene dalle mie mani. Fu così anche con Debussy e Schumann. Sopportavo a malapena Beethoven. La terza sinfonia – ogni volta ripeteva il maestro che si scopava mia madre – la interpretavo con una grazia e un’intensità che i fiati e gli archi sarebbero stati d’intralcio. Io pensavo più semplice. Pensavo che poteva andarselo a prendere nel culo il maestro. Una sera portò con sé un violino e volle farmi provare. Mi indicò la presa, la posizione delle braccia, l’inclinazione del collo e l’impugnatura dell’archetto. Suonò qualcosa di pessimo, non ricordo bene che cosa (un passaggio da Le quattro stagioni di Vivaldi forse, ma non ne sono sicuro per via del suo stile incerto) poi mi passò lo strumento. Non stetti a pensarci troppo, mi arrangiai a ripetere quello che aveva appena eseguito e intanto lo guardavo negli occhi per capire come stessi andando, senza smettere di suonare. Non disse niente, si alzò sparendo dalla mia vista. Tornò con un bicchiere di vodka in mano e io continuai a inventare melodie da solo per tutto il pomeriggio davanti alla sua faccia da ebete. Suonai nei giorni, nelle settimane e negli anni a venire. Studiai pianoforte e violino con il maestro che si scopava mia madre fino al giorno in cui non mi rinchiusero in conservatorio. La cosa che mi chiesi l’ultima volta che lo vidi fu come diavolo avrebbe potuto venire a casa nostra senza più la scusa del mio insegnamento. Scomparve quell’uomo e non ho mai saputo se incontrasse la mia mamma fuori dalla nostra casa. A dodici anni ero già diplomato. Conobbi Alina a quattordici, una sera di un concerto per archi, nelle quinte del nostro teatro. Era più grande di me di un paio di anni. Studiava violoncello. Bravina, niente più. Una strafica in compenso, incazzata con tutti e tutto a ogni ora del giorno e della notte. Un cane sciolto, segretamente trotzkista fin dall’età più tenera. Ci mettemmo insieme e andammo avanti per lungo tempo a fare sesso in un ripostiglio adiacente a una delle numerose sale da prova al piano terra del palazzo della Filarmonica. Ci chiudevamo dentro a chiave al termine delle lezioni. Solo con gli anni cominciammo a frequentarci in pubblico. E impiegammo lo stesso tempo a raccontarci, e a svelare l’uno all’altra i risvolti del nostro fare finta di essere. Un poco alla volta lei manifestò la sua avversione verso il regime a sostegno dell’idea di rivoluzione tradita, rivelandomi i suoi propositi di congiura. Aveva risorse e conoscenze che neanche immaginavo. Non serve entrare nei dettagli, vi basti sapere che in conservatorio esistevano gruppi antisistema sfuggiti perfino alle battute di caccia del KGB ai tempi di Brežnev. Anch’io le regalai un giorno la mia confessione più grande. Pioveva fuori, a casa c’era il camino acceso e i miei se n’erano andati a Varsavia per una conferenza sul XX congresso e la svolta politica nel Paese dopo di allora. Bevemmo sambuca io e Alina e non pensammo a Chruščëv. Scopammo a più non posso nella sala degli ospiti sopra il tappeto di fronte al piano. Rimanemmo a guardarci in faccia senza dire niente per un po’ e a me alla fine venne voglia di farle ascoltare qualcosa al violino. Fece una faccia strana. Mostrò stupore perché sapeva che odiavo qualunque esibizione fuori da quelle a cui ero costretto. Le sorrisi cercando di allentare quel po’ di tensione che tradivano i suoi occhi bruni. Suonai per quaranta minuti e la stesi come non avrei più fatto in vita mia. Poi le chiesi di seguirmi nello studio di mio padre e le raccontai tutto. Accesi il vecchio giradischi e la feci accomodare sul divano. Si sforzava di apparire rilassata ma c’era un’impazienza che le saliva su dai fianchi e che i movimenti del suo corpo tradivano. “Questa è la stanza dove lui custodisce i suoi segreti.”
“Che genere di segreti?” mi chiese con la voce che le tremava.
“Non farti idee strane, non c’è nulla qui che riguardi l’esercito o il partito, e che possa in qualche modo compromettere mio padre. Credo che da quel punto di vista sia incorruttibile.”
Colsi nel suo sorriso un velo di delusione.
“È una cosa che val la pena farti conoscere, perché riguarda me prima ancora di lui.” Me ne stetti immobile a fissarla per alcuni secondi poi continuai a parlare.
In quella stanza si rinchiudeva per ore a leggere libri e a scrivere i suoi documenti. Ascoltava i dischi poi. Ne aveva intere collezioni. Musica classica e musica da camera. Li teneva ordinati in una grande libreria sulla parete di fondo. Centinaia di copie dei compositori più conosciuti ma anche di autori russi minori. Li conosceva tutti e di tutti sapeva raccontarti una storia. Nessuno poteva invadere il suo regno. Era vietato sia a me che a mia madre varcare quella soglia, a meno che non fosse lui a invitarci. Ogni tanto capitava che mio padre mi consentisse di ascoltare musica in sua compagnia, e io consideravo quella circostanza al pari di un giorno di festa. Di quelli che bevevi vino e mangiavi carne in scatola. Una volta, all’età di sette, otto anni, mi nascosi nella sua stanza, così, per gioco, credendo che lui sarebbe rincasato molto tardi. Quando sentii la maniglia muoversi, cogliendo al volo lo spostamento della porta che stava per aprirsi, mi lanciai nel vano che la parete più vicina a me formava con una delle librerie. Pensai che se mi avesse scoperto sarebbe stato capace di cacciarmi da casa per sempre. Entrò e si chiuse la porta alle spalle. Non immaginava ovviamente che io fossi lì con lui, ma se non avesse preso libri da una delle scaffalature vicino alla scrivania non mi avrebbe scorto. Si bloccò dinanzi al giradischi, poi tornò indietro, riuscivo a capirlo dai passi. Feci capolino dall’angolo della libreria e lo vidi di spalle che armeggiava alla vecchia cassapanca poggiata alla parete su uno dei due lati della porta. Tolse qualcosa da dentro e poi imbracciò quello che a me parse una pila di libri. Ma non vidi bene perché ritrassi di colpo la testa oltre il mobile. Si spostò di nuovo nella mia direzione e un attimo dopo il giradischi prese a gracchiare. Passarono altri secondi poi cominciò la musica. La mia testa e le mie gambe andarono in frantumi. Trattenni a stento un grido, ma dovetti piegarmi sulle ginocchia per non saltare fuori da là dietro e colpire con forza il mio vecchio che mi aveva privato fino a quel giorno del suo fantastico mondo incantato. Me ne rimasi in silenzio invece, e respirai piano quell’ossigeno buono al il mio sangue e ai miei polmoni. La prima canzone fu Drive My Car. Poi Norwegian Wood, You Won’t See Me e altre ancora. Tenevo gli occhi chiusi e lasciai che il mio corpo venisse invaso da un esercito di formiche che avevano deciso di ridurmi in polvere. Vedevo tutto sottosopra. Peggio di una sbornia. Mio padre continuò a starmi sulle palle, ma dal quel giorno gli sono debitore. Dal momento in cui mi indicò, senza accorgersene, un punto nuovo, fuori dalla traccia profonda che lui stesso aveva marcato alla mia comparsa nella sua vita. Un punto distante, al di là del senso comune che apparteneva alla maggioranza di noi ragazzi ignari fino allo stordimento. Oltre il tempo che passa senza lasciare scritte sui muri dei cessi di scuola o sopra i cartelloni inneggianti al Segretario generale e al Supremo Soviet nelle strade della città e del paese intero. Distante dagli uomini e dalle donne che avevo fino ad allora conosciuto. E dalle scelte che tutti quegli uomini e quelle donne mi avevano in qualche modo imposto. Non aveva una doppia vita mio padre nella Russia di Brežnev. Almeno io non l’ho mai creduto. Soltanto una cassapanca segreta con i dischi dei Beatles. Non seppe mai che lo scoprii. Non seppe neanche di tutte le volte in cui, quando se ne andava, mi chiusi la porta alle spalle e ascoltai le sue canzoni, che diventarono le mie. Non seppe mai che dovetti rinunciare a suonare per lui o per chiunque altro Strawberry Fields, e Blackbird. Girl, You’ve Got to Hide Your Love Away. Day Tripper, While My Guitar. Avrei potuto suonarle tutte quante con il mio violino. E non lo avevo mai fatto prima di quel giorno con Alina. Il giorno in cui scopammo a più non posso sopra il tappeto davanti al piano perché i miei se n’erano andati a una conferenza dello storico XX congresso del partito. La cassapanca era un forziere d’oro. Stavano in un doppio fondo, i dischi. Non fu facile scardinarla. E soprattutto era complicato non lasciare ogni volta tracce del mio passaggio. C’erano tutti gli originali. Gli undici long playing pubblicati tra il 1963 e il 1970 nella loro edizione inglese. Da Please Please Me a Let It Be. Sono andato a letto per lunghi anni immaginandomi quelle copertine e disegnando nell’aria scura sopra di me le facce di loro quattro, che il tempo trasformò quasi come le canzoni. E le canzoni rimasero incise sulla mia pelle come un marchio a fuoco. La verità è che non ho mai sentito il bisogno di suonarle. Erano lì, addosso a me e sapevo che non se ne sarebbero mai andate. Mi bastava questo. Non avevo davvero bisogno di niente, io. Solo del mio strumento e del silenzio intorno. A parte una sfrenata e incrollabile voglia di stupire fino in fondo la ragazza più bella; quella stessa voglia che in una sera di un inverno lontano nel salone della mia vecchia casa di Leningrado vinse su tutto il resto.
La perestrojka incattivì Alina ancora di più, fino a estraniarla completamente dalla società civile, rinchiudendola per sempre nella sua vita nevrotica, di cui a un certo punto ero diventato solo una delle tessere incasinate. Ci sposammo quando avevo diciotto anni, nel pieno del suo periodo di crisi. Vivemmo in un appartamento misero alla periferia della città per qualche tempo, poi sparimmo entrambi e non ci vedemmo mai più. Vivemmo assieme uniti dalla forza di repulsione verso il mondo che ci aveva cresciuto. L’amore non ho mai capito bene cosa fosse. Credo non si potesse dire che ne provassimo l’uno per l’altra. C’era attrazione fra noi. I nostri corpi continuarono a cercarsi dalla prima volta che incrociammo gli sguardi al concerto per archi. E anche un certo modo di negare a noi stessi le nostre origini ci tenne legati a doppio filo. Non sentii dolore quando, in un pomeriggio di neve e vento gelido, rincasando, non la trovai seduta nella sua poltrona a leggere Bulgakov o Tolstoj. Rammarico semmai, per non averle saputo offrire anche solo il sogno di una fuga dalla prigione che opprimeva entrambi ogni giorno di più. Nel marcio delle nostre stanze segnate da muri invalicabili. Così rimasi in quella casa alcuni mesi ancora dopo la sua scomparsa. Un giorno chiusi la mia valigia e la porta d’ingresso avviandomi a piedi verso la stazione Finlandia. Attraversai un gran bel pezzo di città respirando aria fredda e l’odore di nafta che saliva dalla Neva. Infilai la metro che mi scese nei pressi del terminal da dove sarebbe partito il nostro treno. Era la seconda volta che uscivo dal paese per un concerto con la Filarmonica. Ci ritrovammo intorno alle sei del pomeriggio per imbarcarci alla volta di Zurigo e proseguire da lì in aereo verso il Portogallo. Ci attendevano due date la settimana seguente in occasione di un festival internazionale su Pëtr Čajkovskij. Lisbona e Oporto le nostre mete. Non tornai più indietro. Fuggii dall’albergo la notte dopo il secondo concerto e mi rifugiai per alcuni mesi presso la Igreja românica de Cedofeita. Fui accolto da un prete caritevole che mi donò un letto e un pasto caldo alla sera da dividere con altre decine di profughi e clandestini provenienti da ogni luogo della Terra. Vissi per oltre un anno elemosinando nei dintorni del Jardim do Palácio do Cristal. Suonavo il mio violino in alcuni ristoranti della zona riuscendo a tirar via quanto bastava a non crepare di fame sulle panchine fuori della Biblioteca Municipal Almeida Garrett dove trascorrevo gran parte dei pomeriggi. Vissi da clandestino con la paura che qualcuno venisse a prendermi un giorno per riportarmi a casa. Leggevo la cronaca del Jornal de Noticias all’interno della biblioteca, e imparai abbastanza in fretta la lingua del mio paese nuovo. Non c’era modo di scambiare troppe parole con la gente fuori dal ricovero dove passavo le notti. Il crollo del muro e dell’Unione Sovietica fecero il resto, forzando il corso degli eventi. La mia vita cambiò nel volgere di dieci o quindici settimane. La Storia del mondo fece lo stesso. Fu come smettere di essere un uomo trasparente e d’improvviso ritrovarsi a bere un caffè senza il timore di sentirsi già le manette ai polsi. Uscire al mattino in cerca di un lavoro serio. Fare domande in giro. Spedire lettere di presentazione, chiedere ai vigili un indirizzo. Diventare uomo di una città che avrebbe anch’essa provato a diventare mia. Il prete caritevole seppe trovarmi un paio di famiglie disposte a pagare bene le mie lezioni di musica. Insegnai per un po’ di tempo a rampolli senza uno straccio di talento, nudi di fronte al loro strumento e all’arte della musica. Poi i miei curricula, i colloqui e le selezioni che seguirono mi spalancarono le porte al conservatorio cittadino dove tutt’oggi continuo a lavorare. Da trent’anni ormai sono a Oporto e non ho ancora dimenticato niente dei miei giorni vissuti in questa città con il prurito della fame che mi passava attraverso il corpo come faceva il vento fresco che spira dall’oceano a ogni ora del giorno e della notte. Oggi continuo a frequentare i ristoranti che mi salvarono la vita. Quando me lo chiedono, mi porto appresso il violino e suono per la gente che non volle cacciarmi quando avrebbe potuto farlo con un semplice gesto della mano. Primo fra tutti José Aldemar, il vecchio proprietario del Cafè Carioca, che conquistai la prima volta con un’improvvisazione di Eleanor Rigby, tirata come neanche un pezzo dei Ramones.
Fu il vecchio Aldermar ad accennarmi di McCartney. Sarebbe venuto in città per un concerto al Teatro Nacional. “Non posso entrare in quel posto, José.”
“Perché?” mi chiese.
“Perché è un luogo da cui sono fuggito. È come se tornassi in Russia. Non si torna nei luoghi che hai abbandonato. Proverei disagio e non solo. Forse anche dolore.”
“Quindi mi stai dicendo che tu non entrerai mai più in un teatro in vita tua?”
“No, ti sto dicendo che io non vado al Nacional. Perché fu lì che suonai con la Filarmonica nel mio ultimo concerto.”
“Ah, capisco.” Si allontanò e non lo vidi fin quando non mi portò l’insalata calda di seppie e polpo che lui stesso mi aveva raccomandato venti minuti prima. Appoggiò il piatto davanti a me, girò in tondo al tavolo e si sedette al mio fianco. Chiese a uno dei camerieri una bottiglia di Vinho Verde con due calici, poi scosse la testa. Mi raccontò un po’ di cose della sua vita e di come si fa a trascorrere cinquanta e passa anni accanto alla stessa donna. Parlò poi dei nostri quattro amici e dell’emozione che lo prendeva ogni volta che sentiva il mio violino suonare la loro musica. Mi disse alla fine che lui non era mai fuggito da nulla e questa forse era stata la sua vera disgrazia. Il mio biglietto per il concerto di McCartney lo avrebbe regalato a un amico di suo figlio. Alzai gli occhi dal mio polpo e feci cenno di sì con la testa. Mi guardò appoggiandomi la mano sul braccio destro, quello più vicino a lui. “Un gran bel regalo, cazzo. Tutto per noi. Ci saremmo divertiti da pazzi a quel concerto. Fa niente, ci andrò da solo.” Era riuscito a farmi sentire una merda, senza troppi sforzi. Non ebbi il tempo neanche di chiedere scusa che continuò: “Per piacere non prendere impegni per la cena del prossimo martedì. Ti invito qui nel mio ristorante. Nessun evento particolare. Niente compleanni o anniversari. Solo una serata giusta da passare con un po’ di amici. Posso contare sulla tua presenza?” Non ce la feci a opporgli un altro rifiuto. Gli sorrisi stringendogli la mano e colpendolo sulla manica della camicia sudata. Pagai il conto direttamente a lui e me ne andai. Tornai a casa facendo una lunga passeggiata per il Jardim da Cordoaria. Sulla strada rimasi a guardare la faccia di Paul che un attacchino aveva srotolato da un manifesto gigante appiccicandola con un rullo che maneggiava svelto sulla parete di una casa che nessuno abitava più da anni. “Il teatro Nacional presenta il suo più grande evento mercoledì alle ore ventuno.” Tirai su con il naso, pensai agli occhi delusi di José e ripresi a camminare.
Non avevo una ragione valida per portarmi il violino. Lo feci però. E fu la scelta giusta. Tirava un’aria strana al ristorante. C’era fermento e un’eccitazione sotterranea che respirai facendo un giro per le sale. I tavoli erano stati spostati, la loro dislocazione diversa dal solito. Arrivai intorno alle otto di sera. I più erano in piedi che sorseggiavano un prosecco italiano offerto da un paio di cameriere che José aveva assoldato per l’occasione, vestite con abiti di un passato lusitano che non avevo conosciuto. Mi chiesi quale fosse il senso di tutto ciò. Cercai il mio amico con lo sguardo ma non riuscii a vederlo. Scorsi fra la gente un paio di signori che conoscevo perché anche loro frequentavano il ristorante da qualche anno. Un avvocato civilista più o meno della mia età e un anziano medico di famiglia, tal Andreas Nasèr, patito anch’egli dei… Guardando l’avvocato Nasèr attraverso il calice del mio prosecco italiano fui illuminato da un bagliore. Brillò una goccia sul vetro, il riflesso liberò nell’aria una stella a sei punte (ma potevano essere anche otto o dodici). Capii di colpo tutto quanto. Fu come mettere in fila quattro, cinque addendi a una cifra e fare la somma. Poggiai il bicchiere vuoto sul bancone vicino alla macchina da caffè e andai in cerca del biglietto col mio nome facendo zig zag fra i tavoli nella sala più grande. Avevo notato che ne erano stati apparecchiati molti per sei persone. Poi ce n’era uno rotondo nell’angolo più distante rispetto all’ingresso. Sospettati che il mio biglietto appartenesse a quel tavolo. Lessi il mio nome e poi detti uno sguardo agli altri. Ebbi un sussulto. Chiusi gli occhi e lasciai che la luce della mia stella evaporasse da qualche parte nell’aria intorno. Per un attimo credo di avere perso i sensi. Mi sorressi a una sedia riuscendo a tenermi in piedi a fatica. Respirai allontanandomi in fretta. Recuperai la custodia del mio violino che avevo affidato a un guardarobiere e uscii dal retro. Mi ritrovai in un cortile che dava su una strada buia. Ebbi voglia di andarmene. Solo un grande e insopprimibile desiderio di sparire. Dal ristorante, da Oporto, dalla faccia della Terra forse. Pensai che se ci fosse stato un momento giusto nella mia vita per scomparire una volta per tutte da ogni luogo del mondo sarebbe stato quello. Bagnai il volto con l’acqua di un pilozzo appoggiato al muro esterno e allentai la cintura. Sudavo credendo di poterci annegare nel mio sudore. Sfilai la giacca, tolsi la camicia e la maglietta della salute prima che si impregnassero del mio odore. Lavai a fondo ascelle, collo e petto fino quasi a scorticarmi, e mi rivestii. Toccai la barba ai lati del mento facendo il conto da quante settimane non mi radevo. Poi cercai dentro, di nuovo, in fondo, semmai non fossero andati perduti per sempre, gli ultimi barlumi di luce lasciati in giro dalla mia stella a sei punte. Tolsi il violino dalla custodia, soffiai forte nell’aria due, tre volte e rientrai nel ristorante. Non seppi quanto tempo ero rimasto fuori a prendermi il vento dell’oceano che strappava le foglie dagli alberi e sbatteva le persiane dei palazzi alti. Mi affacciai cauto nella sala. Erano tutti quanti al loro posto. José, seduto al tavolo rotondo più distante, mi scorse per primo facendomi cenno con la mano di raggiungerlo. Tra lui e l’ospite c’era la mia sedia vuota. Ma io avevo bisogno d’altro. Pensai fosse giusto rendere merito alla parte di me che mi aveva salvato la vita ai tempi dell’arrivo in Portogallo. Volevo suonare, libero da ogni oppressione e senso della vergogna. Riempire il mio vuoto di accordi che ancora non conoscevo, inventare da capo vecchie musiche che non erano state pensate in nessun modo per il mio violino. Avrei inondato la sala del lato B di Abbey Road. Di quel suo capolavoro confuso. Incompiuto forse. Avrei reso omaggio al grande ospite e alla sua sciarada in formato medley riadattandola in presa diretta ‒ come io e chissà chi altri al mondo eravamo in grado di fare ‒ a una chiave ribelle per un solo arco. Prese le mosse da You Never Give Me Your Money sarei giunto dritto al finale sbagliato di Her Majesty, entrando dentro la carne dei presenti e del nostro amico attraverso lo stillicidio smodato di quelle canzoni in frantumi, accennate e basta in quel disco, oppure giunte una volta e per sempre a compimento ultimo. Non ci è dato intuire. Destinate comunque a prova inconfondibile di un talento fuori categoria. Sarei sprofondato in un mondo che non conoscevo, ne ero stato capace chissà quante volte in vita mia, solo che adesso avrei usato la mia faccia dura, giocando a sorprendere una platea ignara. Un po’ come piombare da estraneo in una casa qualunque e urlare in faccia ai presenti di esser passato dalla finestra del bagno. Ah… Non andò così. Abbey Road lo tenni buono per un’altra storia. Guardai la faccia di José che si sciolse in un sorriso slabbrato di intima approvazione. Poi, dentro a un volger di note ridondante come una pioggia che non cade da mesi, attaccai il solo che George Martin aveva suonato nell’intermezzo di In My Life. Le corde sotto al mio archetto diventarono di grano, fin quasi allo sfarinamento. Il suono bagnò l’aria e la fronte del mio amico José. Il violino si trasformò nella spinetta del vecchio George. E lui alzò la testa dalla tovaglia che stava ammirando con una signora seduta di fronte. Puntò il fucile che aveva negli occhi dritto nella mia direzione. Io gli scatenai contro una guerra che neanche immaginava. Suonai Girl, Nowhere Man e Norwegian Wood che accompagnai con il lamento incerto della mia voce intossicata di raucedine. Chiusi in un tripudio che non ricordavo dai tempi della mia giovinezza. Mi sedetti alla fine nel posto che mi era stato riservato. Gli strinsi la mano e lui si complimentò con un viso che voleva quasi strapparsi. Era davvero in tensione e non fece nulla per nasconderlo. Iniziammo a mangiare e chiacchierammo di cose senza importanza. Bevemmo un ottimo bianco della Terra di Barbanza. E poi ci scolammo due bottiglie e mezzo di Porto. Si voltò ubriaco Paul, spostando tutto il corpo dalla mia parte e alzandomi dritto sul viso il suo indice minaccioso: “Perché hai voluto provocarmi con tutte quelle canzoni di John? Perché non Drive My Car oppure Michelle che pure facevano parte di quel disco? Perché non mi hai tenuto da parte nulla?” Gli sorrisi e trattenni a fatica un’emozione che prese a salirmi di nuovo in gola dal basso ventre: “Perché sono un uomo arrabbiato. Da sempre. E non sono mai stato capace di chiudere i conti con i fantasmi che mi vivono attorno. Non avevo nessuna intenzione di leccarti il culo. E non ce l’ho neanche adesso. Da canaglia vera ti ho lanciato contro un po’ del mio rancore triste. Te lo sei preso mangiando come un porco e bevendo come si beve in una serata come questa; poi ti sei rivolto a me senza uno straccio di finzione. Non ti conosco ma ti ammiro.” Ammiccai a una vecchia Gibson acustica appesa alla parete di lato come fosse una testa di cinghiale, e continuai: “Adesso potremmo anche deporre le armi io e te, e pensare a un armistizio. Tiriamo giù quella sei corde e regaliamo a questa sala la nostra migliore esecuzione, partendo, che ne so, da un accordo in minore…”
“Quale accordo hai in testa, sentiamo?”
“Esattamente un do minore.”
Si portò la mano su una delle guance fissandomi storto: “Intendi quel do minore? Davvero vuoi suonare con me Come Together?”
“Hai indovinato.”
Scosse la testa e rise di gusto per la prima volta da quando lo avevo visto quella sera: “Sei un vero stronzo. E traditore fino alla fine…” disse.
“È davvero così. Arrenditi.”
“Stavolta però canto io. John non me l’avrebbe mai lasciato fare.”
segue: Intermezzo cinque